martedì 24 dicembre 2013

Di vetro e d'agrifoglio



UNO


Ogni anno, a Natale, era sempre la stessa storia. O almeno, era sempre la stessa storia dagli ultimi tre, da quando Marco aveva deciso che fosse giunto il momento di cambiare radicalmente la propria vita. Fu un giovedì mattina di aprile, quando, con tutta la naturalezza della quale disponeva si recò al lavoro con una scatola di cartone e dentro, ci mise tutto quello che trovò nel suo ufficio con estrema cura. Sistemò la cornice con la foto fatta insieme al suo capo sei mesi prima sopra i libri, in modo che questi non la comprimessero con il loro peso, e gli stessi libri non li mise nella scatola a caso, li ordinò per grandezza, dai più grandi ai più piccoli e quando erano troppo simili per decidere quale fosse il maggiore si affidava all’ordine alfabetico. Svuotò i cassetti, ma ogni singola graffetta, ogni matita, ogni fascicolo fu introdotto e sistemato con calma ed ordine. Quando finalmente concluse il meticoloso lavoro si recò nell’ufficio del suo superiore e sfoderando un sorriso smagliante rovesciò tutto sulla sua scrivania incasinando la pila di carte che vi era appoggiata. Poi, con la stessa identica naturalezza lo invitò, testualmente a: “raccogliersi tutta quella merda una cucchiaiata alla volta”. Poi uscì, prelevò tutto quello che riuscì dal suo conto corrente e poi lo chiuse. Vendette sia la moto che l’automobile, le svendette a dire il vero, ma non con sacrificio. Si liberò di tutto quello che aveva in casa, senza risparmiare niente, o meglio, quasi niente. Qualcosa conservò. Poche cose: uno zaino, la foto di una barca blu, un cavatappi di legno ed  una stilografica marrone.
Poi scrisse due righe di commiato cercando di non usare parole tristi. Riuscì a non scrivere addio alla fine.
Infine partì, come aveva sempre sognato, vagando per mari e per monti, per alte città e per campagne sconfinate, per foreste sterminate e per oceani dove lo sguardo non sarebbe mai riuscito a trovare riposo, alla costante ricerca di qualcosa che riuscisse a toglierli il fiato, anche solo per un minuto. Aveva trascorso gli ultimi tre Natali ubriaco, una volta con qualche barbone sperduto nelle metropoli del sud degli Stati Uniti, un’altra in un ranch del Montana, un’altra ancora sui laghi finlandesi. Ed ogni anno, a natale, era sempre la stessa storia: combatteva contro la voglia di tornare a casa, ma quest’anno, sapeva che non avrebbe vinto lui.

DUE

Ogni anno, a Natale, era sempre la stessa storia. La settimana che precedeva il giorno della vigilia veniva provato tutto quanto. Si apparecchiavano i tavoli e si studiavano tutte le combinazioni di colore possibili delle tovaglie con i fiori, delle ghirlande, dei portatovaglioli, cercando, per quanto possibile, di non ripetere gli accostamenti degli anni passati. Si sceglievano accuratamente tutte le portate, inclusi contorni e antipasti. Si degustavano preventivamente tutti i vini. Tutto quanto sarebbe dovuto essere perfetto. Tutto sarebbe dovuto funzionare esattamente come gli ingranaggi di un orologio svizzero, in maniera estremamente precisa ed elegante. Gaia possedeva un gusto innato, una dote naturale, per organizzare le feste e per rendere ogni cena o banchetto speciale, e anche ora che era incinta e il bambino sarebbe dovuto nascere da lì a poco, non si risparmiava nulla. Controllava tutto, provava ogni cosa. Il pranzo di Natale lo aspettava tutto l’anno, era sempre stato così. Tutto nella stanza profumava. Tutto era magicamente illuminato dai riflessi di luce del fuoco nel camino e tutti, in casa, erano pronti per andare alla messa di mezzanotte quando Gaia, riguardando l’albero di Natale, si fermò di colpo, a contemplare quella che era diventata un’ovvietà dopo settimane di accettazione. Decise che l’albero di Natale non le piaceva a sufficienza e che andava sistemato. Ogni anno, a Natale, era sempre la stessa storia. All’ultimo minuto, qualcosa andava storto.

TRE


Il porto di Rotterdam, nonostante fosse il pomeriggio della vigilia di Natale, lavorava a pieno regime e con apprezzabile ritmo. Alcune delle merci avevano tardato ad arrivare, complici le mareggiate degli ultimi giorni, ed erano riuscite ad approdare soltanto la precedente notte, a tarda ora. Durante la mattinata l’intero porto era alle prese con lo scaricamento della “Steadfast”, una delle navi più grandi di Singapore. Le merci venivano scaricate tra le imprecazioni contro il freddo della maggior parte dei lavoratori con delle enormi gru che si perdevano nella nebbia emanata dal cielo grigio. Una volta scaricate, le merci,  venivano poi spostate su vagoni che arrivavano fino alla banchina, portate nei magazzini di stoccaggio, catalogate, timbrate, ridivise, ed infine caricate sulla fila di camion che, proprio durante quella notte, avrebbero dovuto consegnarle nelle principali città europee. Partivano camion in direzione di Berlino, Monaco, Stoccarda, Lione, Torino, Milano, Zurigo e altre città più piccole. Come sempre, prima di partire, Martin, seguiva il suo rituale: tre pinte di scura, cinque sigarette, e un’ora di risciacqui col colluttorio per levare l’odore dell’alcol, quel tanto che bastava per fare in modo che, semmai lo fermasse la polizia, potesse usare la sua lingua lunga per salvarsi il culo senza che loro sentissero la puzza birra nel suo alito pesante. Aveva terminato le tre pinte più in fretta del previsto quella sera, quasi fosse il suo modo di festeggiare l’arrivo del Natale, e camminava lungo la città illuminata per arrivare al porto e partire per la meta che gli avevano assegnato, quando la sua attenzione venne catturata da qualcosa di strano. Un ragazzo, ancora giovane, vestito male e trascurato se ne stava a prender a calci la saracinesca della stazione degli autobus.
“Che diavolo fai ragazzo?”
“secondo te cosa sto facendo, non si vede?!”
“Sto vedendo che ti stai per rompere un piede. Idiota.”
“cristo. ” si fermò, continuando a guardare il metallo della serranda, soltanto leggermente ammaccato.
“arrivato tardi?”
“già… ho perso l’ultimo autobus”
“e dove te ne volevi andare?” incalzava Martin, che pareva stranamente divertito da quel ragazzo.
“Italia…”
“è la tua sera fortunata ragazzo”
“che vuoi dire?”
“che salgo sul camion tra mezz’ora, devo arrivare a Milano. Ti potrei dare un passaggio?”
“cos’è uno scherzo? Mi prendi per il culo?”
“è la verità, parola di danese. Noi danesi non mentiamo mai” urlò ridendo.
Il ragazzo fissò Martin, e anche lui a questo punto rise di gusto.
“allora ragazzo, vieni o no?”
“e in cambio cosa vuoi? Ho finito tutti i soldi”
“oh be… visto che è natale, mi accontenterò di una sigaretta. Ce l’hai una sigaretta vero?”
“si. Ce l’ho una sigaretta.”
Il ragazzo gli allungò una sigaretta. Martin l’accese. 
Era la sesta della serata.
“io sono Martin, come ti chiami ragazzo?”
In quel preciso momento cadde il primo, leggerissimo, fiocco di neve.
“Marco. Mi chiamo Marco”.

QUATTRO


Gaia non aveva mai avuto dubbi: Il segreto di un bell’albero di natale, sta tutto nei vuoti. Meno un albero di Natale è vuoto, più sarà bello a vedersi. Pensava a questo mentre con infinita cura riguardava e risistemava le decine di bolle di vetro con cui aveva, giorni prima, decorato l’enorme abete posto nel salotto, di fronte al camino. Tutti gli altri erano andati alla messa e lei, era rimasta sola in casa, con le sue bolle di vetro. Le scrutava una ad una. Le fissava, le puliva, le fissava nuovamente e le risistemava, con un’attenzione quasi sacra per ogni singolo dettaglio. Ogni bolla era diversa dall’altra, ed ogni bolla, ricordava un natale diverso. Ognuna di quelle trenta bolle era stata comprata da Gaia e da suo fratello, una vigilia di Natale dopo l’altra, in quello che era diventato, col tempo, una sorta di rituale irrinunciabile, uno di quelli di cui la gente si circonda nel corso del tempo, micce di fuoco in grado di accendere ricordi che in certe occasioni valeva la pena ricordare. Dopo averle accarezzate, dolcemente le poneva sull’albero, cercando di lasciare meno vuoti possibili, come si era ripromessa di fare. Nella penombra della sala, senza nessuna fretta, le sistemava e pensava a suo fratello, che da anni non aveva sue notizie, e come ogni natale, riguardando quelle bolle, arrivava un momento, molto breve, in cui nel silenzio della sala, le lacrime prendevano il sopravvento. Pensava spesso a suo fratello, ma sempre con il sorriso sulle labbra, come lui le aveva chiesto prima di partire, e quando, come a Natale, scendeva qualche lacrima, Gaia, non riusciva a non sentirsi in colpa. Era arrivata al punto che le sarebbe bastato soltanto sapere se stava bene, nient’altro. Avrebbe voluto sentire la sua voce, ricevere una sua lettera, un segno qualsiasi della sua vicinanza. Sapeva che non sarebbe arrivato. Era da pochi minuti scoccata la mezzanotte e Gaia aveva in mano le ultime tre bolle da sistemare, quando sentì una fitta improvvisa al ventre. Subito un’altra. E un’altra ancora. Cedettero le sue gambe e cadde sul tappeto, urtando il pavimento e rompendo le bolle che aveva tra le mani. Non poteva credere che fosse arrivato quel momento. Non poteva credere che il bambino sarebbe nato proprio quella notte.

CINQUE


“Buonasera, cosa trasportate?”
“Scarpe signore. Non ancora assemblate. Suole, strighe, lacci in pelle.”
“da dove arrivate?”
“Rotterdam signore”
“e il ragazzo, chi è?”
“ah è solo un giovane che sto riaccompagnando a casa. Un amico” rideva spesso Martin.
“Signore non avrà per caso bevuto?”
“lei sta scherzando vero? Sta mettendo in dubbio la mia professionalità? Lei sta insinuando che farei migliaia di chilometri di notte dopo aver bevuto? Magari non solo una birra, due, o tre o chissà quante? Le sta dicendo che….”
“va bene va bene basta, vada. Tenga. Buona serata”
“anche a lei agente, ah…e buon natale, guardi l’ora”
Il poliziotto non rispose e si girò per tornare nel gabbiotto sormontato dalla scritta: “Italia”.
“figlio di puttana” disse Martin mentre tirò su il finestrino.
“questo tempo non promette nulla di buono” 
Nevicava, da ormai decine di chilometri, e sempre con maggiore intensità. Martin e Marco proseguivano con passo piuttosto lento per la strada che si snodava parallela al lago subito dopo il confine svizzero. Un fremito iniziava a scuotere Marco. Mancava da quei luoghi da ormai troppo tempo e subito pensò che non ci sarebbe stato modo migliore di ritornarci. La neve si era depositata sui rachitici rami delle piante che circondavano il lago e, gelando, aveva trasformato i tronchi in meravigliose sculture lucenti. Scintillavano ad ogni sollecitazioni, anche alle più minute. I fanali del camion illuminavano una decina di metri di strada al massimo, e questa, sembrava fosse costantemente bombardata da sacchi di farina sbriciolati. Mano a mano che la strada proseguiva si accorgeva di riconoscere, per quanto riuscisse a vedere fuori dal finestrino, ogni singola insenatura del lago, ogni curva della strada, addirittura, gli pareva di ricordarsi di ogni singolo albero.
Era mancato da casa per più di milletrecento giorni, aveva dormito in più di seicento posti diversi, e aveva perso il conto di quanti ne aveva soltanto visitati. Era stato in quattro continenti e ventisette nazioni. Aveva visto migliaia, milioni di alberi. Ma quelli gli avrebbe riconosciuti in mezzo ad altri miliardi. Era esattamente ad otto chilometri da casa, quando il camion dovette fermarsi.

SEI


Il presepe del pronto soccorso era piuttosto grande. C’era una grotta molto bella, ricavata con un pezzo di legno probabilmente ritrovato nei boschi della zona, fatto di un legno mangiato, corroso, usurato. Le altre statuette erano di fattura piuttosto dozzinale, ma nel complesso erano ben sistemate, e l’insieme tutto contribuiva a conferire al posto un pochino più di colore e meno tristezza.
La statuetta del falegname cadde all’improvviso, non molto tempo dopo la mezzanotte, travolta da una barella con sopra una donna incinta che stava per partorire, incredibilmente, proprio in quella favolosa notte. 
Erano accorsi tutti all’ospedale, ad attendere la nascita del bambino, a sperare, a sostenere e da quando la barella era entrata in sala parto erano trascorse diverse mezz’ore che, alla gente fuori, sembrarono, senza esagerare, lunghe come interminabili settimane invernali.
Era strano vedere come nonostante fosse la notte di Natale l’ospedale fosse pieno di gente. Del resto, le malattie non riconoscono i week end, o i giorni festivi, colpiscono quando vogliono, non sono mai degli avversari leali, non posseggono nessun tipo di onore.
Era notte inoltrata, si poteva dire che ormai stesse arrivando il mattino di Natale ed in lontananza, si sentivano gli uomini della banda suonare gli ultimi brani prima di ritornare, stanchi ed infreddoliti, nelle proprie case.
Era notte inoltrata, quasi mattina, quando finalmente, l’ostetrica uscì dalla sala parto, con un sorriso né preoccupato nè amaro, ma pieno di gioia, il bambino era nato e tutto, era andato per il meglio.

SETTE


“il camion non si può più muovere, è tutto ghiacciato, mi dispiace Marco, ma dovremo rimanere qui!”
Marco non poteva credere che avrebbe dovuto rinunciare proprio così vicino alla meta. Aveva atteso per troppo tempo questa parte del viaggio, e anche se non l’avrebbe mai ammesso, l’aveva desiderata dal primo giorno che era partito.
“Martin sono ad otto chilometri da casa, è la notte di natale e manco da casa da milletrecentoventisei giorni, sono esausto e non ho più un soldo, ho salutato tutto quello che ho trovato e l’unica cosa che voglio…è ritornare a casa. Io corro.”
Martin rimase zitto per un attimo, incantato dalla determinazione di quel giovane ragazzo, felice, forse, di partecipare, per una volta, ad un vero miracolo di natale, e l’unica cosa che riuscì a dire fu: “prima però, facciamo un ultimo brindisi”.

Gaia prese in mano il suo bambino, impietrita, accorgendosi ad un tratto di sentire l’umido di una lacrima scivolare sulla sua guancia. Guardò tutte le persone che gli erano attorno, la felicità che quell’incredibile notte le stava regalando. Continuò a singhiozzare mentre guardava il suo bambino che, c’è da crederci, lei considerava senza ombra di dubbio il più bello del mondo. Si congratularono tutti con lei, amici e parenti che erano subito accorsi ed alcuni che l’avevano accompagnata in ospedale, quelli che avevano atteso quelle interminabili mezz’ore. Ed in mezzo a tutta quella bellezza, Gaia si ritrovò a pensare a dove fosse suo fratello, e se sarebbe stato fiero di lei, ma prima di farlo, si assicurò di smettere di piangere, e sul suo volto spuntò un meraviglioso sorriso.

Marco correva, usando tutta l’energia che ancora aveva in corpo e forse anche qualcosa in più. Passò per i boschi nei quali andava da bambino e per le strade sulle quali aveva sfrecciato con la sua moto. Urlò un saluto alla banda che era in giro per la notte. Riconobbe il brano che stavano suonando, come poteva dimenticarlo, era uno degli ultimi della notte. Era completamente bagnato, ma non sentiva ne freddo, ne stanchezza. Arrivò finalmente davanti a casa, e si fermò per un secondo. Un istante, un lieve sorriso. Quando entrò non trovò nessuno, vide soltanto il camino acceso e un albero di natale magnifico con dei vetri rotti per terra.
Uscì di corsa, impaurito, frastornato, quando una voce, dalla casa a fianco lo colse di sorpresa: “che ci fai ancora qui?! Perché non sei in ospedale?.
Immediatamente, Marco, riprese a correre.

Erano le sette di mattina, della mattina di natale, in paese alcuni bambini iniziavano a svegliarsi per scartare i regali lungamente sognati ed agognati nelle lunghissime settimane di avvento.  Il buio lentamente si stava diradando e la neve, continuava a cadere con sorprendente perseveranza.
Erano le sette di mattina, della mattina di Natale quando Marco entrò nella stanza numero sette dell’ospedale del paese e vide sua sorella con suo nipote tra le braccia. Quando entrò rimasero tutti immobili ed impietriti, incluso Marco. Fu sorpreso dal fatto che aveva passato gli ultimi tre anni a setacciare angoli di mondo per cercare qualcosa che lo lasciasse senza fiato, e finalmente, soltanto ora,  l’aveva trovata. Quando riuscì a muoversi frugò nello zaino, prese una scatola e la diede a Gaia che non riusciva a credere a ciò che vedeva. Mentre Gaia l’aprì e vide cosa conteneva, Marco le posò una mano sulla testa, ed accarezzandola disse solo: “sono tre, una per ogni Natale che sono stato via”.



Dedicato a Gaia e Marco, i miei fratelli.

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