sabato 28 dicembre 2013

Greatest hits non richieste (parte I - Best album)

Il 2013 è agli sgoccioli, agli ultimi spasmi prima dell’inesorabile sacrificio volto a favorire l’ascesa dell’anno nuovo. Come per una sorta di tradizione, è tempo di classifiche e di greatest hits, sicuramente non richieste, di cui senza dubbio fareste a meno ed inevitabilmente molto poco autorevoli, come ben si addice a qualsiasi tentativo di spiegazione dell’arte che questo blog ha saltuariamente ospitato. Ho provato a stilare la classifica dei 50 album che più (o meno) mi hanno colpito usciti nel corso di questo 2013.
Doverose premesse: molti dischi sono rimasti fuori il più delle volte perché sono stati decisamente sotto le aspettative che nutrivo per la loro uscita (The Strokes, MGMT, David Bowie, Entropia ecc.), altri li ho persi per strada o non ho avuto abbastanza tempo per ascoltarli a dovere (Queen on the stone age, Jake Bugg, Luca Carboni ecc. ecc.) e quelli entrati in classifica sono lì solo perché sono piaciuti a me, non perché necessariamente siano a livello tecnico i migliori, né tanto meno perché io sappia dirvi tecnicamente quali sono stati i migliori. Posto questo, magari ne trovate qualcuno che piace anche a voi.

#50. Enzo Jannacci – L’artista
#49. Capital Cities – In a tidal wave of mistery
#48. Empire of the sun – Ice on the dune
#47. Sebadoh – Defend yourself
#46. Moderat - II
#45. Status Quo – Bula quo!
#44. Calibro 35 – Traditori di tutti
#43. Bill Callahan – Dream river
#42. Major Lazer – Free the universe
#41. Riva Starr – Hand in hand
#40. Airbourne – Black dog barking
#39. Kodaline – In a perfect world
#38. Yellowcard – Southern air
#37. Painc! At the disco – Too weird to live, too rare to die!
#36. Arctick Monkeys – AM
#35. Kings of Leon – Mechanic Bull
#34. Franz Ferdinand - Right Thoughts, Right Words, Right Action
#33. One Republic – Native
#32. Bastille – Bad Blood
#31. Nick Cave & the Bad Seeds – Push the sky away
#30. Vampire weekend – Modern vampire of the city
#29. Eminem – The Marshall mothers II
#28. King Krule – 6 feet beneath the moon
#27. Buckcherry – Confessions
#26. The Fratellis – We need machine
#25. The Vaccines – Come of age
#24. Edward Sharpe & The Magnetic Zeros - Edward Sharpe & The Magnetic Zeros
#23. Jimmy eat world - Damage
#22. Volcano Choir – Repave
#21. Imagine Dragons – Night Visions

#20. I Cani – Glamour
Il secondo album de "I Cani" sembra seguire la falsa riga del disco precedente. Un po’ hipster, un po’ snob, sono meglio dei Baustelle ma non bravi come gli Zen Circus. Contessa indubbiamente ha qualcosa da dire, se non altro per il fatto di essere estremamente contemporaneo rispetto al mondo che lo circonda. In una cosa poi cazzo hanno ragione: "vorrei stare sempre così, avere cose pratiche in testa, i soldi per mangiare, i dischi, i videogiochi e basta".

#19. Fall Out Boy – Save rock’n’roll
Album gradevole e mediamente superiore ad altri di artisti da cui mi aspettavo di più (Franz Ferdinand su tutti), certo, non è che davvero saranno loro a salvare il rock’n’roll chiariamoci. Poi va bè, se il gruppo avesse la voce del cantante dei Pearl Jam forse mi piacerebbe di più, ma siam sempre lì, se mia nonna avesse le ruote sarebbe una cariola.

#18. The Lumineers – The Lumineers
Album del 2012 a dirla tutta, con versione deluxe nel 2013 e quindi, ripescato. Ad un primo ascolto te ne innamori profondamente, dopo la decima volta un filo inizia a smaronare, anche se "Ho Hey" l’abbiamo cantata fino alla nausea e rimane comunque sempre tanto tanto bella. Brutta copia del Mumford and Son’s, ma una gran bella brutta copia.

#17. Superchunk – I hate music
Chitarre che vanno, ritmi indie classici, niente di rivoluzionario, ma nemmeno niente che davvero non vada. Onesto compitino, ma che alla fine riesce ancora a funzionare. Da ascoltare quando si ha voglia di un rock non troppo complesso.

#16. Gogol Bordello – Pura vida consipracy
Stesso discorso per Gogol Bordello, stessa musica di sempre e concept invariato, cosa che tuttavia va bene perché alla fine noi che siamo i suoi fan da lui vogliamo questo. Musica per ballare e pogare, e live strepitosi dove poterci sfasciare. Quindi finchè continueranno a farci divertire così, lunga vita Gogol Bordello.

#15. Perl Jam – Lighting Bolt
Non lo so. Cioè, anche qui mi aspettavo qualcosa di più, nonostante alcuni pezzi siano davvero belli. Ma gli manca quel qualcosa, quel tocco che trasforma un buon disco in un bel disco. Resta che la voce di Eddie Vedder è tra le migliori che ci siano al mondo, è come fosse un’ulteriore strumento che suona insieme a basso chitarre e batteria. "Sirens" senza dubbio il pezzo migliore. Diciamo che se la cavano ancora una volta, vedremo fino a quando ce la faranno.

#14. Daughter – If you leave
Ammetto che non li ho ascoltati molto e sono tra i primi venti un po’ sulla fiducia. Ma diciamo che sono bastati un paio di ascolti per capire la stoffa di questo gruppo che non conoscevo. Musica perfetta per viaggiare stando straiati sul letto o su una spiaggia, non serve ne benzina ne soldi per i biglietti del treno, non bisogna fare le valigie ne trovare un posto per la notte, è sufficiente chiudere gli occhi.

#13. Fiorella Mannoia – A te
Il 4 marzo 2012 a Bologna, si tennero i funerali di Lucio Dalla. Un’intera città era presente nella chiesa di San Petronio e un’intera nazione era incollata alla tv, tutti a piangere uno dei migliori artisti italiani del ‘900. Un anno e qualche mese dopo Fiorella Mannoia canta alcune delle sue canzoni migliori, un po’ come tributo, un po’ perché manca sempre, a lei come a noi.

#12. Alborosie – Sound the system
La verità è che quelli come me smetteranno di amare il reggae e la patchanka solo quando saremo troppo vecchi per fare i viaggi “on the road” di un mese. E anche lì, non ci giurerei. Si xkè anche allora secondo me riascolteremo “Legend” di bob Marley, “Proxima estacion…” di Manu Chao, e forse anche “Sound the system” di Alborosie ricordandoci quanto ci siamo divertiti, consegnandoli come un eredità ai nostri figli prima che a l'ora volta partano per il mondo: figliolo promettimi di stare attento e di ascoltare Manu Chao e Bob Marley, promettilo!!

#11. Moby – Innocents
Avete presente quel clichè dei taxisti di New York che fermi in coda ai semafori, imbottigliati nel traffico, abbassano il parasole sopra il volante e incastrata hanno la foto di un’isola delle Hawaii dove sognano di ritirarsi, un giorno?!. Quella piccola vacanza, quella minuscola concessione di libertà in mezzo alla frenesia che li circonda. Ecco, questo disco è la stessa cosa.


#10. Ligabue - Mondovisione
Succede a volte, ascoltando la musica, che ci si appassiona talmente tanto ad un artista che quest'ultimo diventa praticamente uno di famiglia, lo zio musicista che vive in America (o a Correggio, fa lo stesso). E succede delle rare volte che l'invecchiare dell'artista, e il conseguente cambiamento della sua musica, avvenga esattamente con la stessa velocità con la quale diventa grande una generazione. Si perché, c'é stato un tempo in cui tutti noi chiedevamo a Dio se avesse un momento anche per noi, c'è stato un tempo in cui abbiamo avuto davvero dei sogni di rock'n'roll (e un po' ancora li abbiamo) c'è stato un tempo che insieme agli amici con i quali crescevamo cantavamo che certe notti non finiscono mai, mano nella mano con la prima ragazza, con la quale, almeno una volta tutti abbiamo pensato sarebbe durata per sempre. 
Gli ultimi due album del Liga sono l'onesta parabola artistica di un uomo che dignitosamente diventa grande scoprendo ancora qualcosa che valga la pena di essere cantato, ogni volta inspiegabilmente toccando quelle corde che hanno bisogno di essere suonate. Perché avrebbe potuto anche lasciarci tutti qui ad urlare ancora contro il cielo e farci diventare grandi da soli, ma non l'ha fatto.


#9. Fedez – Sig. Brainwash (l’arte di accontentare)
Come spesso accade il senso e la sintesi del disco sono contenute nel titolo dell'album: l'arte di accontentare. Quasi in tutte le canzoni e i quasi ogni rima infatti risulta lampante come in effetti accontentare sia un vera e propria arte, e che l'accontentare sia l'arte che deve saper possedere e plasmare chi canta e compone musica (rap ma non solo) al giorno d'oggi.
Fedez é furbo in questo, ha capito quali sono gli ingredienti e le dosi che compongono la formula da propinarci per piacere e non si nasconde. Previene le accuse (il problema di esssere un privilegiato è che ti senti inadeguato e non riesci a dire quello che veramente pensi.) della serie non è tutto oro ció che luccica, e sfodera tutta la sua (finta?) umiltà di ragazzo che dice quello che pensa. Dal canto mio, gli credo, o almeno, il risultato che ne esce sembra coerente di per sé, e per un attimo passa quasi la voglia di andare ad indagare se sia coerente con il personaggio Fedez e poi ancora con l'uomo Federico. Quasi avessi paura dell'eventuale delusione, quasi che la paura di soffrire sia peggio della sofferenza stessa.


#8. Arcade Fire – Reflektor
Il confine che c’è fra un buon gruppo e un gruppo che ci ricorderemo, credo coincida con il terzo album. Se una band riesce a creare tre album sopra la media, è arrivata. Ce l'ha fatta. Ora, "The Funeral" e "Suburbs" sono stati due album per molti versi fenomenali, tanto che, come spesso accade, è facile far entrare un gruppo in una crisi d’identità condita da ansia da prestazione che, la storia ci insegna, ha trascinato nel baratro decine di gruppi all’esordio promettenti e poi trasformatisi in meteore. Reflektor, per quanto mi riguarda, vince la sfida del terzo album, con un eleganza sorprendente. Si perché, chi si aspettava un disco rock forse rimarrà deluso, ma gli Arcade fire dimostrano di saper maneggiare la musica, il ritmo, di sapersi reinventare con quella facilità tipica dei gruppi che sono destinati ad avere una vita parecchio lunga, vedere alla voce "Beatles" per credere.


#7. Paul McCartney – New
Partiamo dal presupposto che io i Beatles non li ho mai amati e il Paul solista non fa differenza (anche se lo preferisco mille volte). Posto questo, la meraviglia del disco è innegabile, come del resto lo è la smisurata bravura di un artista che rimane comunque uno dei mostri sacri del rock ancora in vita e in attività, che umilia, mi si passi il termine, musicalmente, gran parte delle band rock attualmente in circolo. Nonostante questo i limiti rimangono, sia chiaro, parlo dei miei limiti ad ascoltare la sua musica, non certo dei suoi nel comporla (semmai ce ne fossero). Sarà che le melodie troppo perfette e musicalmente impeccabili non riescono a far breccia nel mio cuore musicale alle volte piuttosto rozzo se si parla di rock, io che il rock molte volte lo preferisco quando è un po’ più buttato lì come viene, convinto nel profondo che gli errori siano una componente irrinunciabile così nella musica come nella vita.


#6. Daft Punk – Random access memories
Se qualcuno cercasse un motivo valido per ascoltare questo disco basterebbe sapere come ha risposto Pharrell Williams, il cantante di Get Lucky (e di blurred lines, l’altra grande hit estiva, scusate), alla domanda su come abbia fatto ad uscirgli la frase: “We’re up all night to get lucky”, di fatto abbastanza intraducibile in italiano. Risponde: “volevo creare un momento di estasi assoluta che si ripetesse all’infinito annullando la divisione passato/presente/futuro.” E a chi giustamente ribatte che si pensava parlasse di sesso lui incalza: “il sesso è un momento di perfezione assoluta quindi non è del tutto sbagliato”. Premesso questo, i motivi validi per ascoltare il disco sono un’infinità.
In un epoca sempre più votata all’utilizzo indiscriminato della tecnologia, i Robot, si fanno carico di riportare il mondo della musica creata con i computer e i campionatori all’utilizzo di strumenti musicali e voci umane e facendo così, quasi per una logica conseguenza, vanno a ripescare la disco music degli anni ’70, come se, la sintesi estrema della loro musica fino ad ora composta, eliminata la sovrastruttura, non possa che essere questa. Il risultato è un disco complesso, studiato nei minimi particolari, che appare però fluido e inesorabilmente giusto, appropriato, autentico, quasi a suggerirci, ancora una volta, che se veramente si vuole andare avanti nel futuro bisogna plasmare ciò che di buono c’è stato nel passato.


#5. Is Tropical – I’m leaving
Quando ho finito di ascoltare la prima volta questo disco, l’ho fatto subito ripartire da capo. Due volte. Sono consapevole che è possibile che crei spavento vederlo davanti a gente tipo Daft Punk o McCartney (vedrete chi c’è in testa…), ma questo disco ha un alone per me magico.
Mi sembra una colonna sonora adatta a diversi momenti dell’anno e della vita, quasi riuscisse a mimetizzarsi come un camaleonte in diverse situazioni. Lo ascolterei in barca sul lago e allo stesso modo in camera mentre fuori piove, lo metterei nelle cuffie in metropolitana e allo stesso modo nello stereo della macchina mentre vado in vacanza. Lo metterei un mattino a spasso nei paesini della Galizia e lo rimetterei in una baita in montagna mentre guardo la neve che scende. Me lo tengo stretto, come un segreto, o una mia suggestione, e non vi assicuro che vi possa fare lo stesso effetto.


#4. Los Campesinos! – No Blues
“Hello Sadness”, Il penultimo album dei Los Campesinos! l'ho usurato nelle fredde giornate del gennaio scorso. Il mio animo inquietissimo di allora ben si sposava con l'enorme quantità di suoni, colori e atmosfere che il gruppo gallese ha la maestria di saper mescolare. Ora esce il nuovo album e lo stile è lo stesso, ma sono cambiato io. Quello che prima era lo stile dell'inquietudine si trasforma ora, finalmente, nel disco della serenità, con cui guardare il mondo nella sua meraviglia con un sorriso. Ennesimo lavoro ben fatto della band che, pur non riuscendo mai a fare il grande salto (e non per demerito) non fallisce mai gli appuntamenti. No Blues è una tavolozza di colori con i quali dipingere splendidi pensieri.


#3. Parov Stelar – The art of sampling
Alcuni lo chiamano jazz tecnico, altri electro swing e dopo sei mesi che lo ascolto ancora non sono in grado di dare una definizione precisa al genere, ma poco importa. 
Parov stelar sa perfettamente come suonano i suoni, e questa cosa, che può sembrare scontata, non lo è affatto. Sa dosare ogni ingrediente con gusto ed eleganza generando un piatto ricco senza ne essere troppo dolce, ne aspro, ne amaro, un prodotto in equilibrio perfetto, in continua tensione tra poli diversi, di una precisione maniacale, è come se la sua musica camminasse come un funambolo su un filo sottilissimo senza esagerare nè risparmiarsi, rasentando in diversi punti la perfezione, un susseguirsi di ritmi ballabili ed estremamente gustosi costruito con suoni pieni variegati ed avvolgenti.



#2. Appino - Il Testamento
Appino, come del resto fanno gli Zen Circus, non concede sconti, non è morbido verso nessuno, quasi questo mondo non meritasse nessun tipo d'indulgenza, e in effetti ha parecchia ragione. Anche se poi in realtà non lo fa ne per snobbismo, ne per critica a prescindere, ne tanto meno per invidia verso il mainstream mascherata da anticonformismo. Anzi, tutto il contrario, e forse questo è il vero motivo perché a differenza di un sacco di artisti indie italiani produce musica di qualità superiore alla media. Appino non rosica mai ed è coerente con quello che dice. di album in album continua a limare la punta alla sua matita generando un tratto sempre più aguzzo e meno grossolano. Una volta ci avrebbe mandato semplicemente tutti affanculo senza troppe spiegazioni, col tempo la sua denuncia si fa sempre più poetica e sottile, insinuandosi in chi ascolta, con il risultato di rendere le sue parole decisamente più efficaci.


#1. Dargen D’Amico – 
Vivere aiuta a non morire

Eh si. L’artista dell’anno per me, è stato Dargen D’amico. Ho fatto la sua conoscenza sulle strade spagnole quando da un posto all’altro imparavamo le canzoni dei suoi precedenti album: “Di vizi, di forma virtù” e “CD’”, per poi tornare a casa e, tra settembre e ottobre, letteralmente usurare “Vivere aiuta a non morire” che già solo per il titolo potrei usare come estrema sintesi di questo 2013 che sta finendo.
La chiave per leggere, ascoltare e capire Dargen D’amico è l’ironia, e l’uso che il rapper ne fa in ogni cosa che scrive, che canta o che fa. Una volta capito questo, l’album che ad uno sguardo superficiale sembrerebbe soltanto l’ennesimo disco di un rapper italiano che vende stronzate ai ragazzini, diventa un’esperienza fatta per riflettere, ballando, ragionando, ripensando.
Vivere Aiuta a non morire è uno di quei dischi che vanno ascolti e riascolti rimuginando su qualsiasi sfaccettatura e qualunque significato recondito, su ogni sillaba e su tutte le rime create distorcendo la lingua italiana, capace di regalare doppi sensi pressoché ovunque, cercando di apprendere non tanto il senso completo dell'album, quanto piuttosto di rubare la modalità di sguardo che Dargen ha sul mondo di oggi, per poi, se siamo bravi e fortunati, farne tesoro ed usarla a nostra volta.





martedì 24 dicembre 2013

Di vetro e d'agrifoglio



UNO


Ogni anno, a Natale, era sempre la stessa storia. O almeno, era sempre la stessa storia dagli ultimi tre, da quando Marco aveva deciso che fosse giunto il momento di cambiare radicalmente la propria vita. Fu un giovedì mattina di aprile, quando, con tutta la naturalezza della quale disponeva si recò al lavoro con una scatola di cartone e dentro, ci mise tutto quello che trovò nel suo ufficio con estrema cura. Sistemò la cornice con la foto fatta insieme al suo capo sei mesi prima sopra i libri, in modo che questi non la comprimessero con il loro peso, e gli stessi libri non li mise nella scatola a caso, li ordinò per grandezza, dai più grandi ai più piccoli e quando erano troppo simili per decidere quale fosse il maggiore si affidava all’ordine alfabetico. Svuotò i cassetti, ma ogni singola graffetta, ogni matita, ogni fascicolo fu introdotto e sistemato con calma ed ordine. Quando finalmente concluse il meticoloso lavoro si recò nell’ufficio del suo superiore e sfoderando un sorriso smagliante rovesciò tutto sulla sua scrivania incasinando la pila di carte che vi era appoggiata. Poi, con la stessa identica naturalezza lo invitò, testualmente a: “raccogliersi tutta quella merda una cucchiaiata alla volta”. Poi uscì, prelevò tutto quello che riuscì dal suo conto corrente e poi lo chiuse. Vendette sia la moto che l’automobile, le svendette a dire il vero, ma non con sacrificio. Si liberò di tutto quello che aveva in casa, senza risparmiare niente, o meglio, quasi niente. Qualcosa conservò. Poche cose: uno zaino, la foto di una barca blu, un cavatappi di legno ed  una stilografica marrone.
Poi scrisse due righe di commiato cercando di non usare parole tristi. Riuscì a non scrivere addio alla fine.
Infine partì, come aveva sempre sognato, vagando per mari e per monti, per alte città e per campagne sconfinate, per foreste sterminate e per oceani dove lo sguardo non sarebbe mai riuscito a trovare riposo, alla costante ricerca di qualcosa che riuscisse a toglierli il fiato, anche solo per un minuto. Aveva trascorso gli ultimi tre Natali ubriaco, una volta con qualche barbone sperduto nelle metropoli del sud degli Stati Uniti, un’altra in un ranch del Montana, un’altra ancora sui laghi finlandesi. Ed ogni anno, a natale, era sempre la stessa storia: combatteva contro la voglia di tornare a casa, ma quest’anno, sapeva che non avrebbe vinto lui.

DUE

Ogni anno, a Natale, era sempre la stessa storia. La settimana che precedeva il giorno della vigilia veniva provato tutto quanto. Si apparecchiavano i tavoli e si studiavano tutte le combinazioni di colore possibili delle tovaglie con i fiori, delle ghirlande, dei portatovaglioli, cercando, per quanto possibile, di non ripetere gli accostamenti degli anni passati. Si sceglievano accuratamente tutte le portate, inclusi contorni e antipasti. Si degustavano preventivamente tutti i vini. Tutto quanto sarebbe dovuto essere perfetto. Tutto sarebbe dovuto funzionare esattamente come gli ingranaggi di un orologio svizzero, in maniera estremamente precisa ed elegante. Gaia possedeva un gusto innato, una dote naturale, per organizzare le feste e per rendere ogni cena o banchetto speciale, e anche ora che era incinta e il bambino sarebbe dovuto nascere da lì a poco, non si risparmiava nulla. Controllava tutto, provava ogni cosa. Il pranzo di Natale lo aspettava tutto l’anno, era sempre stato così. Tutto nella stanza profumava. Tutto era magicamente illuminato dai riflessi di luce del fuoco nel camino e tutti, in casa, erano pronti per andare alla messa di mezzanotte quando Gaia, riguardando l’albero di Natale, si fermò di colpo, a contemplare quella che era diventata un’ovvietà dopo settimane di accettazione. Decise che l’albero di Natale non le piaceva a sufficienza e che andava sistemato. Ogni anno, a Natale, era sempre la stessa storia. All’ultimo minuto, qualcosa andava storto.

TRE


Il porto di Rotterdam, nonostante fosse il pomeriggio della vigilia di Natale, lavorava a pieno regime e con apprezzabile ritmo. Alcune delle merci avevano tardato ad arrivare, complici le mareggiate degli ultimi giorni, ed erano riuscite ad approdare soltanto la precedente notte, a tarda ora. Durante la mattinata l’intero porto era alle prese con lo scaricamento della “Steadfast”, una delle navi più grandi di Singapore. Le merci venivano scaricate tra le imprecazioni contro il freddo della maggior parte dei lavoratori con delle enormi gru che si perdevano nella nebbia emanata dal cielo grigio. Una volta scaricate, le merci,  venivano poi spostate su vagoni che arrivavano fino alla banchina, portate nei magazzini di stoccaggio, catalogate, timbrate, ridivise, ed infine caricate sulla fila di camion che, proprio durante quella notte, avrebbero dovuto consegnarle nelle principali città europee. Partivano camion in direzione di Berlino, Monaco, Stoccarda, Lione, Torino, Milano, Zurigo e altre città più piccole. Come sempre, prima di partire, Martin, seguiva il suo rituale: tre pinte di scura, cinque sigarette, e un’ora di risciacqui col colluttorio per levare l’odore dell’alcol, quel tanto che bastava per fare in modo che, semmai lo fermasse la polizia, potesse usare la sua lingua lunga per salvarsi il culo senza che loro sentissero la puzza birra nel suo alito pesante. Aveva terminato le tre pinte più in fretta del previsto quella sera, quasi fosse il suo modo di festeggiare l’arrivo del Natale, e camminava lungo la città illuminata per arrivare al porto e partire per la meta che gli avevano assegnato, quando la sua attenzione venne catturata da qualcosa di strano. Un ragazzo, ancora giovane, vestito male e trascurato se ne stava a prender a calci la saracinesca della stazione degli autobus.
“Che diavolo fai ragazzo?”
“secondo te cosa sto facendo, non si vede?!”
“Sto vedendo che ti stai per rompere un piede. Idiota.”
“cristo. ” si fermò, continuando a guardare il metallo della serranda, soltanto leggermente ammaccato.
“arrivato tardi?”
“già… ho perso l’ultimo autobus”
“e dove te ne volevi andare?” incalzava Martin, che pareva stranamente divertito da quel ragazzo.
“Italia…”
“è la tua sera fortunata ragazzo”
“che vuoi dire?”
“che salgo sul camion tra mezz’ora, devo arrivare a Milano. Ti potrei dare un passaggio?”
“cos’è uno scherzo? Mi prendi per il culo?”
“è la verità, parola di danese. Noi danesi non mentiamo mai” urlò ridendo.
Il ragazzo fissò Martin, e anche lui a questo punto rise di gusto.
“allora ragazzo, vieni o no?”
“e in cambio cosa vuoi? Ho finito tutti i soldi”
“oh be… visto che è natale, mi accontenterò di una sigaretta. Ce l’hai una sigaretta vero?”
“si. Ce l’ho una sigaretta.”
Il ragazzo gli allungò una sigaretta. Martin l’accese. 
Era la sesta della serata.
“io sono Martin, come ti chiami ragazzo?”
In quel preciso momento cadde il primo, leggerissimo, fiocco di neve.
“Marco. Mi chiamo Marco”.

QUATTRO


Gaia non aveva mai avuto dubbi: Il segreto di un bell’albero di natale, sta tutto nei vuoti. Meno un albero di Natale è vuoto, più sarà bello a vedersi. Pensava a questo mentre con infinita cura riguardava e risistemava le decine di bolle di vetro con cui aveva, giorni prima, decorato l’enorme abete posto nel salotto, di fronte al camino. Tutti gli altri erano andati alla messa e lei, era rimasta sola in casa, con le sue bolle di vetro. Le scrutava una ad una. Le fissava, le puliva, le fissava nuovamente e le risistemava, con un’attenzione quasi sacra per ogni singolo dettaglio. Ogni bolla era diversa dall’altra, ed ogni bolla, ricordava un natale diverso. Ognuna di quelle trenta bolle era stata comprata da Gaia e da suo fratello, una vigilia di Natale dopo l’altra, in quello che era diventato, col tempo, una sorta di rituale irrinunciabile, uno di quelli di cui la gente si circonda nel corso del tempo, micce di fuoco in grado di accendere ricordi che in certe occasioni valeva la pena ricordare. Dopo averle accarezzate, dolcemente le poneva sull’albero, cercando di lasciare meno vuoti possibili, come si era ripromessa di fare. Nella penombra della sala, senza nessuna fretta, le sistemava e pensava a suo fratello, che da anni non aveva sue notizie, e come ogni natale, riguardando quelle bolle, arrivava un momento, molto breve, in cui nel silenzio della sala, le lacrime prendevano il sopravvento. Pensava spesso a suo fratello, ma sempre con il sorriso sulle labbra, come lui le aveva chiesto prima di partire, e quando, come a Natale, scendeva qualche lacrima, Gaia, non riusciva a non sentirsi in colpa. Era arrivata al punto che le sarebbe bastato soltanto sapere se stava bene, nient’altro. Avrebbe voluto sentire la sua voce, ricevere una sua lettera, un segno qualsiasi della sua vicinanza. Sapeva che non sarebbe arrivato. Era da pochi minuti scoccata la mezzanotte e Gaia aveva in mano le ultime tre bolle da sistemare, quando sentì una fitta improvvisa al ventre. Subito un’altra. E un’altra ancora. Cedettero le sue gambe e cadde sul tappeto, urtando il pavimento e rompendo le bolle che aveva tra le mani. Non poteva credere che fosse arrivato quel momento. Non poteva credere che il bambino sarebbe nato proprio quella notte.

CINQUE


“Buonasera, cosa trasportate?”
“Scarpe signore. Non ancora assemblate. Suole, strighe, lacci in pelle.”
“da dove arrivate?”
“Rotterdam signore”
“e il ragazzo, chi è?”
“ah è solo un giovane che sto riaccompagnando a casa. Un amico” rideva spesso Martin.
“Signore non avrà per caso bevuto?”
“lei sta scherzando vero? Sta mettendo in dubbio la mia professionalità? Lei sta insinuando che farei migliaia di chilometri di notte dopo aver bevuto? Magari non solo una birra, due, o tre o chissà quante? Le sta dicendo che….”
“va bene va bene basta, vada. Tenga. Buona serata”
“anche a lei agente, ah…e buon natale, guardi l’ora”
Il poliziotto non rispose e si girò per tornare nel gabbiotto sormontato dalla scritta: “Italia”.
“figlio di puttana” disse Martin mentre tirò su il finestrino.
“questo tempo non promette nulla di buono” 
Nevicava, da ormai decine di chilometri, e sempre con maggiore intensità. Martin e Marco proseguivano con passo piuttosto lento per la strada che si snodava parallela al lago subito dopo il confine svizzero. Un fremito iniziava a scuotere Marco. Mancava da quei luoghi da ormai troppo tempo e subito pensò che non ci sarebbe stato modo migliore di ritornarci. La neve si era depositata sui rachitici rami delle piante che circondavano il lago e, gelando, aveva trasformato i tronchi in meravigliose sculture lucenti. Scintillavano ad ogni sollecitazioni, anche alle più minute. I fanali del camion illuminavano una decina di metri di strada al massimo, e questa, sembrava fosse costantemente bombardata da sacchi di farina sbriciolati. Mano a mano che la strada proseguiva si accorgeva di riconoscere, per quanto riuscisse a vedere fuori dal finestrino, ogni singola insenatura del lago, ogni curva della strada, addirittura, gli pareva di ricordarsi di ogni singolo albero.
Era mancato da casa per più di milletrecento giorni, aveva dormito in più di seicento posti diversi, e aveva perso il conto di quanti ne aveva soltanto visitati. Era stato in quattro continenti e ventisette nazioni. Aveva visto migliaia, milioni di alberi. Ma quelli gli avrebbe riconosciuti in mezzo ad altri miliardi. Era esattamente ad otto chilometri da casa, quando il camion dovette fermarsi.

SEI


Il presepe del pronto soccorso era piuttosto grande. C’era una grotta molto bella, ricavata con un pezzo di legno probabilmente ritrovato nei boschi della zona, fatto di un legno mangiato, corroso, usurato. Le altre statuette erano di fattura piuttosto dozzinale, ma nel complesso erano ben sistemate, e l’insieme tutto contribuiva a conferire al posto un pochino più di colore e meno tristezza.
La statuetta del falegname cadde all’improvviso, non molto tempo dopo la mezzanotte, travolta da una barella con sopra una donna incinta che stava per partorire, incredibilmente, proprio in quella favolosa notte. 
Erano accorsi tutti all’ospedale, ad attendere la nascita del bambino, a sperare, a sostenere e da quando la barella era entrata in sala parto erano trascorse diverse mezz’ore che, alla gente fuori, sembrarono, senza esagerare, lunghe come interminabili settimane invernali.
Era strano vedere come nonostante fosse la notte di Natale l’ospedale fosse pieno di gente. Del resto, le malattie non riconoscono i week end, o i giorni festivi, colpiscono quando vogliono, non sono mai degli avversari leali, non posseggono nessun tipo di onore.
Era notte inoltrata, si poteva dire che ormai stesse arrivando il mattino di Natale ed in lontananza, si sentivano gli uomini della banda suonare gli ultimi brani prima di ritornare, stanchi ed infreddoliti, nelle proprie case.
Era notte inoltrata, quasi mattina, quando finalmente, l’ostetrica uscì dalla sala parto, con un sorriso né preoccupato nè amaro, ma pieno di gioia, il bambino era nato e tutto, era andato per il meglio.

SETTE


“il camion non si può più muovere, è tutto ghiacciato, mi dispiace Marco, ma dovremo rimanere qui!”
Marco non poteva credere che avrebbe dovuto rinunciare proprio così vicino alla meta. Aveva atteso per troppo tempo questa parte del viaggio, e anche se non l’avrebbe mai ammesso, l’aveva desiderata dal primo giorno che era partito.
“Martin sono ad otto chilometri da casa, è la notte di natale e manco da casa da milletrecentoventisei giorni, sono esausto e non ho più un soldo, ho salutato tutto quello che ho trovato e l’unica cosa che voglio…è ritornare a casa. Io corro.”
Martin rimase zitto per un attimo, incantato dalla determinazione di quel giovane ragazzo, felice, forse, di partecipare, per una volta, ad un vero miracolo di natale, e l’unica cosa che riuscì a dire fu: “prima però, facciamo un ultimo brindisi”.

Gaia prese in mano il suo bambino, impietrita, accorgendosi ad un tratto di sentire l’umido di una lacrima scivolare sulla sua guancia. Guardò tutte le persone che gli erano attorno, la felicità che quell’incredibile notte le stava regalando. Continuò a singhiozzare mentre guardava il suo bambino che, c’è da crederci, lei considerava senza ombra di dubbio il più bello del mondo. Si congratularono tutti con lei, amici e parenti che erano subito accorsi ed alcuni che l’avevano accompagnata in ospedale, quelli che avevano atteso quelle interminabili mezz’ore. Ed in mezzo a tutta quella bellezza, Gaia si ritrovò a pensare a dove fosse suo fratello, e se sarebbe stato fiero di lei, ma prima di farlo, si assicurò di smettere di piangere, e sul suo volto spuntò un meraviglioso sorriso.

Marco correva, usando tutta l’energia che ancora aveva in corpo e forse anche qualcosa in più. Passò per i boschi nei quali andava da bambino e per le strade sulle quali aveva sfrecciato con la sua moto. Urlò un saluto alla banda che era in giro per la notte. Riconobbe il brano che stavano suonando, come poteva dimenticarlo, era uno degli ultimi della notte. Era completamente bagnato, ma non sentiva ne freddo, ne stanchezza. Arrivò finalmente davanti a casa, e si fermò per un secondo. Un istante, un lieve sorriso. Quando entrò non trovò nessuno, vide soltanto il camino acceso e un albero di natale magnifico con dei vetri rotti per terra.
Uscì di corsa, impaurito, frastornato, quando una voce, dalla casa a fianco lo colse di sorpresa: “che ci fai ancora qui?! Perché non sei in ospedale?.
Immediatamente, Marco, riprese a correre.

Erano le sette di mattina, della mattina di natale, in paese alcuni bambini iniziavano a svegliarsi per scartare i regali lungamente sognati ed agognati nelle lunghissime settimane di avvento.  Il buio lentamente si stava diradando e la neve, continuava a cadere con sorprendente perseveranza.
Erano le sette di mattina, della mattina di Natale quando Marco entrò nella stanza numero sette dell’ospedale del paese e vide sua sorella con suo nipote tra le braccia. Quando entrò rimasero tutti immobili ed impietriti, incluso Marco. Fu sorpreso dal fatto che aveva passato gli ultimi tre anni a setacciare angoli di mondo per cercare qualcosa che lo lasciasse senza fiato, e finalmente, soltanto ora,  l’aveva trovata. Quando riuscì a muoversi frugò nello zaino, prese una scatola e la diede a Gaia che non riusciva a credere a ciò che vedeva. Mentre Gaia l’aprì e vide cosa conteneva, Marco le posò una mano sulla testa, ed accarezzandola disse solo: “sono tre, una per ogni Natale che sono stato via”.



Dedicato a Gaia e Marco, i miei fratelli.

venerdì 20 dicembre 2013

Un romantico a Milano (parte I)


Milano è la città più europea del mondo. 
Neanche New York è così europea come Milano
Claudio Bisio

I primi giorni pioveva continuamente, non che non me l’aspettassi sia chiaro, ma non pensavo che il meteo potesse avere una tale costanza e coerenza. Tanto che, complice la stanchezza dell’ultimo mese, quando mi svegliavo presto erano le nove, giusto quel tanto che basta per fare tardi a lezione. Del resto come si fa ad alzarsi quando fuori piove e la mansarda dove abiti amplifica il rumore delle gocce che si infrangono sul tetto?! Ma non era solo il sonno ad inibirmi. Diciamo che vivere in una ventina di metri quadri comporta scelte di vita particolari ed occorre un certo lasso di tempo per abituarsi.
Vivere in un monolocale induce a trovare soluzioni geniali per le pratiche quotidiane. Asciugare calze e mutande non è così semplice come si possa pensare. Trascorse le dodici ore di stesura nella doccia ho iniziato, senza successo, ad asciugarle prima con il phon, e poi a provare a farle saltare in padella con un filo d’olio, maledicendomi infine per non avere un forno.
Fortunatamente nell’olio di solito ci faccio saltare il pollo, o le costine di maiale, piatti prelibati che lasciano casa che odora di fritto per le successive 36 ore, impossibile levare l’odore, tanto che forse per mangiare il pollo fritto mi conviene andare nella catena di fast food che ho scovato, fa solo pollo e non è il KFC. Lo ammetto, mi piace perché mi ricorda da morire “Los pollos hermanos”. Che volete, a volte sono parecchio nerd.
Ma la cosa veramente più pericolosa di casa mia è il soppalco con il letto, rischio seriamente la vita un paio di volte al giorno, quando salgo e quando scendo, che se torno ubriaco una sera mi converrà buttarmi sul divano, anche perchè il mio tonfo se cadessi sveglierebbe i vicini e già li propino musica rock ad ogni ora del giorno, non vorrei essere troppo scortese.

Salgo in metro, che mi sento già arrivato, 5 fermate a centrale, 7 a Garibaldi, 10 a Cadorna, ma chi se ne frega, di treni oggi non ne ho da prendere, scendo a porta Genova, altre 7 fermate, e il tempo di innamorarmi due o tre volte, che in metro, per innamorarsi ci vuole un secondo, basta uno sguardo, un taglio di capelli, un vestito aderente. alla prossima scendiamo e andiamo a mangiare qualcosa, io e la ragazza con la coda alta, bellissima. Due piatti di risotto giallo, o al massimo un fast food, forse non sembra romantico, ma il romanticismo si crea, fanculo a candele e violini, meglio una macchina, musica rock e la sabbia sotto i piedi una volta arrivati al mare. Scende all'improvviso, persa per sempre, meglio così, che stasera suona Gogol Bordello all'Alcatraz, chi aveva tempo di innamorarsi oggi?!
Fuori ci sono 2 gradi ma dentro all’Alcatraz sembra di stare in piazza sotto il sole d’estate, 30 gradi, tutti sudati, un pogo da paura, giusto per ricordarmi che il gypsy punk è una delle cose migliori che i balcanici abbiano inventato nella loro storia, insieme al gulash probabilmente. Doccia prima di dormire e dopo poche ore in piedi, computer, carta da schizzo, università. Finalmente dopo tanto sono contento di andarci.
Dopo la lezione ci prendiamo una fetta di torta all’Upcycle.



Un posto diventa veramente casa tua quando trovi un bar dove andare nei momenti vuoti della giornata, uno di quelli dove entri e sai subito dove appoggiare il cappotto e dove sederti, sempre lo stesso tavolo, che se ci trovi una persona lì seduta un po’ girano le palle, ma devi far finta di niente. L’Upcycle è ufficialmente il mio bar di Milano, non ha nemmeno la rottura di palle che ti freghino il tavolo, ne ha due lunghi quindici metri, ci si siede un po’ dove si trova. La torta cioccolato e frutti di bosco non è una torta, è un’esperienza trascendentale, ascetica, quasi mistica.
Non ho ancora internet quindi se mi serve la connessione compro una fetta di torta e uso il loro wifi. Avevo trovato una rete protetta che arrivava a casa mia, si chiamava “pretty fly for a WiFi”, purtroppo non sono stati cos’ idioti da mettere una password tipo “offspring”.
La più banale delle operazioni in rete quindi, comporta esborso di soldi e incremento di grassi e calorie. Tanto ora arrivano le cene di Natale, che senso ha tenersi in forma?! Tanto vale sfondarsi anche prima.
Un po’ quello che pensavo in giro per l’artigiano in fiera, un crepes, un fritto misto, qualche assaggio, la vodka e il caviale. Non c’è natale senza l’artigiano in fiera.
Nonostante quello che normalmente si possa pensare, Milano, è bellissima.
Mille chiese nascoste, tra i palazzi, negli slarghi, sorprendono e stupiscono ad ogni via. La nebbia, la mattina, che annega tutto nel mistero. La 90 che passa, stracolma.
Da colonne a Porta Genova a tratti, ma proprio a tratti sembra di stare a Camden Town, piccoli negozi pseudo vintage, vetrine originali, design, arte.
Negozi di giovani architetti e designer che vendono vestiti, a conferma che quelli in gamba riescono a farcela ancora, o almeno ci provano, e tanto basta per ora.
In colonne è pieno di punkabbestia, gli sguardi intimoriti dei passanti, io un po’ me la rido perché per una volta mi sembra di stare a Berlino, a Londra, a Copenaghen ed invece sono qui a Milano,  per una volta riesco a sentire un po’ di Europa a casa mia, che questa Milano, se davvero volesse, e forse lo vuole, non avrebbe niente da invidiare a nessuno.
Hanno anche fatto l’albero in duomo, ormai ci siamo, tutte le luci sono accese la gente corre per negozi, il fermento si percepisce a vista d’occhio.
E’ quasi commovente la gente a Natale, anche se io ormai non faccio testo, mi commuovo con una facilità disarmante. Mi commuovo quando azzecco il tempo di cottura delle costine di maiale, mi commuovo quando la copisteria mi stampa una tavola giusta al primo colpo, mi commuovo persino durante l’eliminazione di masterchef.

Che bella Milano a natale, che come dice il grande Lucio, quando passa piange, e ci rimane male. Dal canto mio, rimane il tempo per due passi in corso Buenos Aires ad osservare la gente che compra regali e si spintona alla cassa, una bicchiere di vino, una sigaretta, e domani torno dove il natale è ancora più bello che qui, a casa mia.
Due settimane di licenza e poi torno,  Milano, che con te ho appena cominciato.


lunedì 16 dicembre 2013

I miti che rimangono


Alberto Korda è un nome che a molti non dirà nulla di che.
E’ un fotografo del secolo scorso, morto a Parigi nel 2001 e sepolto a L’Havana, Cuba. Alberto è diventato celebre per un’opera in particolare, una fotografia scattata il 4 marzo 1960 chiamata: “Guerrillero Heroico”.
Anche chi non ha mai sentito nominare Korda, sicuramente conosce questo scatto, è la foto più famosa di Ernesto Guevara de la Serna, in arte “El Che”, la foto diventata l’icona della sua storia e forse di tutte le sinistre del mondo anche se, il più delle volte, utilizzata a sproposito e senza che si meritassero di appropriarsene.
Lo sguardo del Che in quella foto fu motivo di speranza e d’ispirazione per tutti i movimenti giovanili del ’68, fu un simbolo da utilizzare come monito contro i regimi totalitari, prima, del resto, che la stessa Cuba diventasse essa stessa un regime, ma questa è un’altra storia di cui un giorno parlerò.
La foto fu pubblicata qualche anno dopo lo scatto, dapprima come poster e successivamente come copertina dei “Diari del Che in Bolivia”, i diari che raccontano i giorni dell’ultima avventura della sua vita, quella che lo condusse alla morte. 


Quando partì per la Bolivia Ernesto Guevara era appena tornato a Cuba dopo la fallimentare spedizione in Africa. Cuba era diventata casa sua dopo che lui stesso aveva contribuito in prima linea a liberare l’isola durante la rivoluzione guidata da Fidel Castro, che rovesciò il regime filo americano guidato da Batista. Successivamente diventò ministro dell’industria, fino a quando decise che avrebbe speso il resto della sua vita come rivoluzionario e non come politico.
A quel tempo, le storie sul Che iniziavano a circolare per il mondo, nonostante allora non ci fossero i mezzi di comunicazione di cui oggi disponiamo, in molte parti del mondo si venne a sapere del medico argentino diventato comandante nella rivoluzione, si conobbe il suo modo di fare, la sua integrità morale di ferro, e i suoi dogmi, tra cui la convinzione di dover sempre far proseguire alle parole pronunciate i fatti concreti.
Fu per questo motivo che, nonostante la guerra a Cuba fu vinta, Ernesto partì alla volta della Bolivia, anch’essa governata da regimi imperialisti filo americani che seminavano povertà e miseria, per cercare di accendere un primo focolaio di guerriglia che avrebbe dovuto espandersi nell’intero continente perseguendo il sogno del Che, la famosa utopia che prevedeva la ribellione e la successiva unificazione dell’intera America latina. La cordigliera delle Ande, sarebbe dovuta diventare una versione più grande e potente della Sierra Maestra cubana.
Ma la spedizione boliviana non ebbe la stessa fortuna di quella cubana. Dopo circa undici mesi di guerriglia le armate boliviane, con l’appoggio della CIA e corrompendo i contadini boliviani che, a differenza di quelli cubani della Sierra Maestra, tradirono i rivoluzionari, riuscirono a catturare i ribelli rimasti vivi, tra cui, lo stesso Che Guevara, stremato dalla fame, dalla fatica e dalla sua solita asma. 
Dopo qualche ora di prigionia e di interrogatori condotti dall’agente cubano della CIA Felix Rodriguez, in cui il Che rispose alle domande con un atteggiamento di sfida prefigurando la futura vittoria della rivoluzione, un agente ricevette l’ordine di fare fuoco ed Ernesto Che Guevara morì, giustiziato da una raffica, anche se, ormai, il mito del Che era conosciuto da tutti e la sua icona era destinata a diventare immortale. Inutili furono i tentativi dei suoi carnefici di disperderne i resti in una fossa comune per fare in modo di non creare una tomba sulla quale si sarebbero riversati centinaia di migliaia di pellegrini. Perché riuscirono certamente ad uccidere l’uomo, ma le sue gesta erano diventate ormai il simbolo da usare come monito verso tutti i regimi del mondo. 
I militari che giustiziarono il Che dichiararono di aver cremato il corpo, e solo nel 1995 si riuscì a scoprire i resti del Che in Bolivia e a portarli a Cuba dove ora riposano in un mausoleo, costruito a Santa Clara, la città che cinquant’anni prima venne liberata proprio dal Che mettendo, di fatto, sotto scacco l’esercito cubano e ponendo le basi per la vittoria finale della rivoluzione.
Anche Guccini racconta in alcune sue canzoni di come il ’68 italiano accolse la notizia della morte del Che e di come subito, capirono che la morte dell’uomo aveva immediatamente permesso la nascita del mito, che la foto di Korda, contribuì ad accrescere. Korda non  prese un soldo per lo scatto, intraprese solo una causa legale contro una ditta che produceva vodka, in Russia, molti anni dopo, che utilizzava l’immagine del Che per pubblicizzare il prodotto (come si fa tutt’oggi con tazze, portachiavi e altre stronzate). Korda patteggiò con l’azienda russa, la quale fu costretta all’esborso di cinquantamila dollari che il fotografo utilizzò per acquistare medicinali per i bambini cubani.

Pochi giorni fa è scomparso Nelson Mandela, e la sensazione di essere in un momento che i libri di storia ricorderanno io l’ho avuta. Perché anche questa volta muore si un uomo, il cuore smette di battere, il corpo svanisce, ma i suoi insegnamenti, le sue azioni, quelle sono destinate ad essere immortali. Muore l’uomo, rimane il simbolo di una lotta contro le differenze di razza, contro l’ingiustizia e la sopraffazione del più forte, contro i privilegi di pochi. Non mi dilungo, perché tanto è storia nota. 
Ma la cosa che importa è che, personaggi come Mandela, come Gandhi, come il Che, non si potranno mai distruggere, con la speranza che ci accompagneranno in ogni decisione che dovremo prendere in futuro, anche e soprattutto nel nostro piccolo, perché il potere della loro figura ha sconfitto anche la morte.
E  come accaduto per il Che, ci rimane qualche immagine mitica destinata ad alimentare in futuro il suo ricordo. Mi piace l’immagine di Mandela, vecchio, il giorno in cui fece ritorno nel carcere dove era stato rinchiuso per anni, all’interno della sua vecchia cella, con il braccio appoggiato alla finestra e lo sguardo che si perde, non fuori, ma oltre, oltre le sbarre, oltre il dolore, oltre il presente, proiettato verso un futuro e un mondo migliore.


Della scomparsa di Nelson Mandela non ricorderò frasi scritte a caso sui social network o servizi commemorativi alla tv, ricorderò solo i banchi del Sudafrica all'artigiano in fiera di Milano, tutti con la sua foto esposta, alcuni con una frase appesa, e gli occhi di chi vi lavorava pieni di gratitudine verso chi gli aveva salvati e gli aveva regalato una vita più dignitosa, quello sguardo, irrimediabilmente triste, ma distintamente orgoglioso.