sabato 6 dicembre 2014

Questione di Tattoo


"Le cose che possiedi, alla fine ti possiedono" (Tyler Durden, Fight Club)

CP 19 19 è il nome della prima “pulsar” mai scoperta nella storia. 
Era il 1967, e due astronomi stavano cercando di rilevare la scintillazione delle quasar con un radiotelescopio, quando, inaspettatamente, rilevarono uno strano impulso di radiazioni emesso regolarmente ogni pochissimi secondi. Erano le radiazioni emesse da una pulsar, vale a dire una stella di neutroni, cioè dei corpi che si formano dopo il collasso di una Supernova II. Raggiungono la stessa massa del sole pur essendo molto piccole, nell’ordine di una decina di chilometri. Il disegno delle emissioni emessi dalla CP 19 19 è questo:


Quattordici anni dopo, Peter Saville, il grafico della storica casa discografica di Manchester Factory Records, utilizzò lo stesso disegno come copertina di uno degli album destinato a diventare di importanza cruciale per la storia della musica.
L’album in questione è Unknown Pleasures, il primo album dei Joy Division, band meteora della storia del rock. Meteora, sempre per stare in tema astronomico, perché pubblicarono solo due album prima di cambiare il nome in “New Order”. Successe infatti che poco dopo l’uscita dell’album d’esordio il leader del gruppo, Ian Curtis, si uccise in casa impiccandosi ad una rastrelliera. Le cronache narrano che prima di morire ascoltò per intero “the Idiot” di Iggy Pop. Aveva 23 anni. Sulla lapide il suo verso più famoso: Love will tear us apart (l’amore ci farà a pezzi). 

Mi sono chiesto un infinità di volte perché Peter Saville scelse quell'immagine per la copertina del disco. Forse solo ed esclusivamente per le linee regolari del disegno e quindi soltanto per una questione estetica, come può essere la scelta di un font o di un particolare colore.  O forse scelse quell'immagine anche per il concetto a cui rimandava, per quello che simbolicamente rappresentava. L'impulso dell'energia, la generazione stessa della vita, della forza, la costruzione del suono, il germogliare della scintilla, la nascita dell’ispirazione.
Ho sempre trovato l'immagine affascinantissima, tanto che con il tempo, il simbolo, si é automaticamente trasformato nella rappresentazione grafica che darei alla parola musica, perché se mi chiedessero di disegnarla, la musica, non farei una nota, non disegnerei un cantante, uno strumento, ma disegnerei quelle linee parallele, quelle generatrici di energia infinita, quel piccolo germe di infinito che contengono, la potenza della musica, una delle armi più potenti che l'universo abbia mai creato, all'apparenza piccola, ma più densa della stessa massa del sole. Esattamente come una pulsar.
Certi simboli si insinuano nel proprio immaginario senza un evidente motivo apparente. Questione di linee e colori. Esattamente come certi profumi o alcuni suoni, imprimono come un timbro le loro fatture nel nostro cervello, e questo le trasmette sotto forma di emozioni alla nostra anima. E’ così che il loro ricordo assume un significato particolare, è così che si trasforma in “istintivo". Questione di sensi. Questione di tatto.

A gennaio compirò 25 anni, entrando di fatto nella fase matura dell’essere giovani. 
Mano a mano che si cresce si accumula sempre più roba intorno. Oggetti vari, di variabile inutilità, che per qualche sottile motivo personale nel corso degli anni sono stati importanti o significativi. I più disparati: sassi, infradito, fotografie, dischi, costumi, cuffie, conchiglie, sciarpe, sottobicchieri, scontrini, biglietti di aereo, ombrelli rubati, bottiglie di birra vuote, libri tascabili, lettere mai spedite, cartoline da posti esotici, cartoline spedite a se stessi, sabbie colorate, coltellini affilati, culi di matite, mappamondi di legno, tazze sbeccate, jeans strappati, magliette bucate, cassetti pieni di segreti.  E uno quando cresce ha la necessità di tenerseli a fianco questi simboli, come piccole porte su passate avventure. 
Lo spettro di come siamo stati accompagna ogni persona come fosse un'ombra animata di vita propria. È un riflesso nel quale continuiamo a specchiarci e a trovare differenze. Perché mentre andiamo avanti é come se tante piccole parti di noi muoiano e rinascano nuove di continuo, ogni giorno, ogni mattina. Tanto che dopo qualche tempo siamo talmente diversi da come eravamo anche solo un anno prima che quel riflesso ci sembra di una persona differente.
Siamo la somma di tutto ciò che accumuliamo nella nostra vita, delle paure che affrontiamo, dei mostri che uccidiamo e dei quali ogni tanto ci illudiamo di rubare la forza dopo averli sconfitti. 
E Facciamo di tutto per portare con noi la memoria di ciò che abbiamo vissuto. Mille tentativi. Come fare uno sforzo enorme per fissare su un foglio i momenti più belli dell’anno per paura di dimenticarseli. O appunto annegare in un mare di oggetti inutili senza mai buttare via niente. Chi è mai stato al Vittoriale sa di cosa parlo, nulla è più necessario del superfluo, diceva D’annunzio. 
Solo che delle volte certe cose sono talmente eteree da non riuscire ad essere toccate con mano, ma non per questo sono meno importanti di quelle su sui si accumula la polvere degli inverni che passano.
La copertina di Unknown Pleasures è uno di queste.
Fragile come un segreto, travolgente come un’esplosione, affascinante per la sua apparente impossibilità di essere rappresentata e toccata.

Ed è solo a questo punto che ci si fa un tatuaggio.



domenica 16 novembre 2014

Un romantico a Milano (parte II)



a Milano, dopo una certa ora della notte, in giro ci sono solo poliziotti, artisti, delinquenti e puttane. 
Il difficile è sempre stato capire chi è chi.
Giorgio Faletti


La prima, fondamentale regola, per non pagare nei bar è farsi amica la barista. 
Questo vale sempre, in qualsiasi circostanza. La seconda è ordinare, possibilmente, sempre la stessa cosa. Paghi i primi due drink, il resto dopo, e, se possibile, ordini non alla stessa cameriera. Più ci sai fare, più le dieci birre che hai ordinato diventeranno magicamente meno. Quante ne hai prese ho perso il conto?.. solo  3 domani mi alzo presto. Sono le 4, quanto presto potrai mai essere? Il momento del conto è la parte più bella della notte: troppo tardi per ieri, troppo presto per domani. Lì è dove si ha il momento di lucidità, immensamente piccolo attimo in cui tutto è fastidiosamente chiaro. Trapassa e ferisce. Stelle come lame.

Corre la 90 per tutta la circonvallazione, la "circonvalla", per gli amici, io che amico non sono, trasportando pittoreschi personaggi che colorano le notti milanesi. Da una parte all’altra della città, questa 90 che gira intorno e passa ovunque, in mezzo strade e traverse, a penetrare verso il cuore della città che si sveglia per davvero quando dorme. L’alcatraz in una di quelle traverse, casa mia. Non casa come i bar di via Ampere, una casa al mare diciamo, ci si va solo per certe occasioni. Meravigliose occasioni. Ci festeggiai anche i 24 anni, vorrei raccontare qualcosa ma mi ricordo molto poco. 
I giorni prima mi regalai l’ultimo album degli Zen Circus, "Viva"  divenne l’inno ufficiale di casa mia, sembrava scritta apposta per la tana. Va da se che andai a sentirli all’alcatraz poche settimane dopo, alla prima occasione utile. Anzi, alla seconda, perché la prima fu a Bologna, giusto due settimane prima. Fu il concerto della svolta quello di Bologna. Concerto fenomenale, ballammo e saltammo ad ogni canzone, quelle canzoni che per i due anni prima avevo fatto passare in loop su qualsiasi dispositivo di riproduzione che mi capitasse davanti. A fine concerto Appino (il frontman, idolo vero) lanciò tra la folla il plettro con cui aveva suonato. Tra i fumi del palco e dell’acol vidi una scintilla davanti agli occhi, chinai il capo e vidi che il plettro era finito a mezzo metro dal mio piede. Lo agguantai al volo anticipando di un secondo la mano di una fanciulla. Ci alzammo insieme, ci pensai un istante, e glielo regalai. Avevo vinto alla lotteria, avevo preso il plettro del cantante degli Zen al loro primo concerto del tour e lo regalai alla prima sconosciuta che passava. Capì in quell’istante che la mia rovina sarebbero sempre state le donne.
Partii per Bologna due giorni dopo la consegna di progettazione, dopo nottate su tavole, modellini e caffè ogni quarto d’ora. Via vallazze di notte, tra puttane, studenti e macchine che corrono veloci. Notti senza dormire, si mescola il giorno alla notte, non esistono più le ore come le si conosce di solito, si parla solo di quante ore mancano all’esame. Il tempo non basta mai, come il caffè. Ci vorrebbe il tempo solubile, per fare prima. Alla facoltà di architettura i laboratori di progettazione ti insegnano per prima cosa a fare gli after. Al quarto anno, dopo nottate sveglio con autocad acceso fare after in discoteca diventa di una semplicità infantile. 
Quando tornai da Bologna scesi dal treno in centrale ed accadde una cosa strana: Milano sapeva di casa, per la prima volta. Perché è così che si fa, si parte e quando si torna lo capisci se torni a casa oppure no. Se non si parte e non si sta via, non lo si capisce mai dove è casa e dove non lo è. E uno non se la può raccontare su questa cosa, non c’è possibilità di fare diversamente. E’ la privazione di qualcosa che ci regala la consapevolezza della sua importanza. 
L’inverno stava per finire, all’orizzonte una nuova estate, nel mezzo altri concerti epici, e il fuorisalone, appuntamento irrinunciabile, le consegne, i progetti, le tavole, il MiAmi, che se Mi Ami vale tutto. 
E poi lo spettacolo al Carcano di Martina e quella finestra su un mondo composto esclusivamente di passione e di fatica, restituita ai nostri occhi sotto forma di movimenti  morbidi e lisci come sono gli ingranaggi perfetti di un sogno. La rappresentazione del caso, studiata nei minimi dettagli.
Passò l’estate e ritornai ad ottobre a Milano, correndo like a deejay, con l’ignoranza meravigliosa di chi mi sta intorno. Che quella in fondo, è l’unica cosa che ti fa sentire a casa sempre, ovunque ci si trovi.




Di casa mancano le cose più strane. Il lago alla domenica mattina. Le cicale di notte, in estate. Il pratone completamente vuoto, e il pratone completamente pieno. I giri in macchina senza meta.  Il vento, in barca. Il profumo della sera.
Di casa mancano le cose più strane. Il rumore dell’acqua sul mio sottotetto nelle mattine di novembre, le passeggiate in corso buenos aires dopo le sei di sera, il sostitutivo della metro e l’alba da lontano, molto lontano. Il duomo di notte. Il tram 23 con le sue panche in legno e le fermate a scandire la sbronza. Le meatball di Porta Genova, e quella bottiglia di vino che Abatantuono ci ha regalato (involontariamente mi sa). Le cialde nespresso a San Babila a dicembre. Los pollos hermanos, anche non si chiama così. I risotti improvvisati. L'odore della città.
Un anno nella tana, ultime settimane milanesi, e quel profumo che sa di libertà… come il caffè.



giovedì 16 ottobre 2014

Au revoir, Buena Vida


La fine dell’estate, da qualche anno a questa parte, non ha coinciso tanto con la ripresa dei corsi all’università, quanto piuttosto con il ritiro della Buena Vida, cioè, la mia barca. Di solito ad ottobre, qualche sabato mattina di pallido sole, di caldo spento, con il vento più freddo di qualche grado rispetto solo a qualche settimana prima, quando settembre ancora esercitava un potere sulle brezze del lago. 

Ritirare la barca è sempre stata una violenza per me. Non che ormai d’estate la usi così tanto, gli esami di progettazione, ad architettura, mi tengono impegnato solitamente fino alla fine di luglio, ad agosto parto per qualche viaggio togliendo di fatto metà del tempo, e il resto dei giorni, con l’esodo dei milanesi che ci invadono, il basso Verbano è più intasato della Milano Laghi. Fortuna che poi arriva settembre, periodo in cui le mie sessioni di esami non sono mai state tanto fortunate. Sì, è vero, non ho dato nemmeno un esame questa sessione, ma voi avete mai ascoltato i “The National” in barca a settembre?. Ho qualche problema con la fine delle vacanze e la ripresa della routine. Il ricovero della Buena Vida, dicevo, è sempre stato difficile per me. Il fatto di avere una barca pronta è un’assicurazione niente male a chi, come me, vive delle volte prepotenti istinti di libertà e fuga rispetto al mondo che lo circonda. 
Quando ad ottobre la barca sparisce dal porto questi istinti vanno gestiti in maniera diversa. Qualche weekend a Monaco, quando il lavoro lo permette, qualche giornata a prendere la macchina ed arrivare fino a qualche città, o fino al mare, quando avevo ancora una macchina. Organizzare qualche giorno lontano. Sono tutti ottimi espedienti ma non bastano quando la voglia di andarsene un po’ affanculo arriva all’improvviso e non si ha tempo di organizzare una minima difesa al suo attacco.
Inoltre organizzare viaggi, che sia per questione di soldi, che per questione di tempo, non è più semplice come lo era qualche anno fa. Le mete che si vociferano, per forza di cose, sono sempre le stesse, di solito qualche capitale europea facilmente raggiungibile da qualche volo low cost. E uno l’istinto di fuga non è che lo può sedare andando a Londra o a Berlino, che in termini di ore ce ne vogliono meno che andare a Bologna. Non lo si può sedare nemmeno andando a Bologna infatti, anche se un caro amico mi direbbe che però aiuta.
Di posti che vorrei visitare fuori dall’Europa ce ne sarebbero talmente tanti che farei prima a dire quelli in cui non me ne frega un cazzo di andare. 
In questi anni ho dovuto imparare a correre via anche quando la Buena vida non è più in porto. Ho dovuto imparare ad andare e tornare dai freddi pomeriggi milanesi giusto il tempo che c’è tra una lezione e l’altra.


L’ultimo viaggio che ho fatto nei cinque minuti di pausa della lezione è stato a Barrow, in Alaska, attraverso una delle innumerevoli webcam che girano sul web e riprendono continuamente cosa succede in determinati parti del mondo. Delle finestre fisse su mondi pazzeschi. Barrow, ad esempio, è un posto incredibile. E’ la città Americana più a nord che ci sia. Le immagini della webcam fanno provare brividi di freddo istantanei. Si vede un mare nero, incazzatissimo, qualche edificio, tanta neve, ed una strada che esce dall’inquadratura perdendosi nel perenne inverno a cui le immagini rimandano. Il nome della città significa “Luogo dove veniva cacciata la civetta delle nevi”. Geniale.

Alcune volte invece faccio un salto nel luogo più remoto della terra Tristan da Cunha, un’isola dell’atlantico a metà strada tra Brasile e Sudafrica. L’isola più vicina è S.Elena, per dire. E’ un’isola abitata da 290 persone, provenienti da 7 ceppi diversi, due italiani, discendenti di naufraghi che nel corso dei secoli sono arrivati lì e non se ne sono più andati. Uno dei posti più affascinanti che conosca.
Altre volte semplicemente vado a guardarmi qualche strada del Nevada o del New Mexico, quelle meravigliose strade da film che tutti abbiamo in mente, lunghe e dritte per chilometri e chilometri.
Certo non è come viaggiare veramente per quei luoghi, ma la Buena Vida verrà rimessa in acqua non prima di marzo, se la stagione sarà clemente, da qui a quel giorno bisogna arrangiarsi come si può. 


Perché la voglia di scappare via ogni tanto arriva per davvero, e senza che ci sia un motivo particolare, anche se delle volte qualche motivo di troncare con tutto almeno per il tempo di arrivare a Barrow c’è

Succede di notte molte volte, per le ragioni più inspiegabili. Notti in cui vorresti fuggire, notti in cui cerchi disperatamente una Buena Vida da qualche parte,  notti che ti intrappolano nel loro buio come una rete da pesca, impossibile liberarsi, o riaddormentarsi, si può solo stare fermi con tutte le onde di ricordi e di acqua salata che ti arrivano addosso e ti sbattono da una parte all'altra della notte, in attesa che filtri un riflesso di luce a farti nuovamente nuotare via verso l'oceano che non smette mai di chiamarti, nemmeno quando la rete è così buia.
Cerchiamo tutti un porto sicuro dove essere accettati incondizionatamente per quello che siamo, e fino a quando non lo troveremo fuggiremo sempre su qualche Buena Vida, su degli aerei precari o anche solo in qualche webcam sul computer.
Anche se poi infine, si può provare ad andare nei luoghi più remoti di questo pianeta o anche di altri, ma le paure ci seguono sempre ovunque ci rifugiamo, e sono sempre qui ad attenderci quando torniamo, e sta a noi, fare in modo che la vera “buena vida”  che cerchiamo non sia soltanto una piccola barca.




Au revoir, Buena Vida, ci si vede a marzo, o forse prima…


domenica 21 settembre 2014

Aperto per ferie


Il mio ultimo viaggio di lavoro mi ha condotto a fermarmi, dopo mille chilometri tirati di macchina, a Lignano Sabbiadoro, posto dove da bambino passavo alcune parti delle mie estati. Si dice che si arrivi sempre al momento giusto nei luoghi in cui si è attesi, e pur conservando questa convinzione, delle volte, si può arrivare anche in alcuni luoghi che non stanno attendendo nessuno.
I posti di mare d'inverno sono spettrali. In giro la sera ci sono solo i camerieri a fine turno che si giocano le mance alle macchinette, lo sguardo di chi sa di essere in ritardo sul mondo, di essere rimasti in un posto dimenticato da Dio, come lo sanno gli appartamento chiusi, e i pochi bar aperti, con le radio accese che riecheggiano forti nelle vie della città. Anche se fino a poco tempo fa si potevano vedere, le frotte di vacanzieri a riempire le vie pedonali del paese, allora più strette e colorate, illuminate fino a notte tarda. Ogni famiglia nello stacco apparente dalle loro vite quotidiane. Ed è proprio quello che mi ha sempre affascinato, pensare alle vite quotidiane dei vacanzieri che incontro quando parto per un viaggio.
Li incontri per strada e ti domandi da dove vengono e cosa fanno, come sono loro durante l'inverno, nella loro città, con i loro amici. Oppure li immagini nelle strade vuote:

La ragazza bionda in giro con la sua famiglia che tiene per mano suo fratello la immagino alla fermata dell'autobus di una piccola città austriaca, il mattino per andare a scuola. Una piccola scuola di provincia con le aiuole curate e i fiori bianchi. Il padre porta la ragazza diciassettenne alla fermata, poco distante da casa loro, ma sulla strada del lavoro. Lei aspetta che vada via per scavare nel fondo dello zaino, tira fuori un piccolo sacchetto di carta e dentro una scatola rettangolare bianca e rossa dall'inconfondibile dimensione. Sfila una sigaretta e chiede di accendere al ragazzo di fianco a lei. Non l'aveva mai notato prima, o forse si. Ma non pensava avesse importanza. Lui la ama segretamente dalla prima media, e aspetta quei dieci minuti di attesa dell'autobus tutto il resto della giornata. Sa riconoscere i fari della macchina di suo padre nel buio del mattino, quando li vede da lontano istintivamente si irrigidisce, mentre si convince di rimanere il più naturale possibile. Ricorda il mattino che ha incrociato il suo sguardo la prima volta, ricorda quando l'aveva attesa inutilmente due ore dopo che l'autobus era passato, accettando a malincuore che quella mattina non si sarebbe mai presentata. Ora ricorderà il giorno che le ha acceso una sigaretta, quando ha potuto annusarle per un istante, di nascosto, i lunghi capelli biondi, prima che la vampata di fumo della sigaretta accesa lo riportasse alla realtà. Un’occhiata scambiata nella notte stanca. Ogni mattina nel mondo alle fermate degli autobus e dei treni si consumano delle meravigliose storie d'amore inconsapevoli.
Quando salgono sull'autobus lei si siede sempre di fianco ad Hans. É bello e alto Hans, e sta con lei. Il ragazzo pensa sicuramente che lui non la tratta bene come farebbe lui. Del resto, le ragazze come quelle stanno sempre con qualche Hans, pensava.

C’è un uomo che cammina da solo e sorride a chiunque incroci il suo sguardo. Cammina piano e si ferma lungo le porte degli innumerevoli ristoranti disseminati lungo la strada. Indugia su ogni menù qualche minuto, cercando di rubare piatti nuovi, di carpirne i segreti soltanto dalla descrizione e dal profumo che arriva dai tavoli pieni. Sa che una volta a casa qualcuno di quei piatti finirà nella su cucina, e che dovrà insegnarli al suo aiuto cuoco ed ai due giovani ragazzi che come ogni anno arriveranno per lo stage. E sa anche che dovrà combattere con la direzione dell’ospedale. Troppi costosi certi piatti per i malati. Dovrà rispondere a chi gli dirà che cucinare certe cose per chi non sente i sapori non è una cosa logica.
Lavorava nella cucina di un ospedale da dodici anni e non aveva mai ricevuto un complimento. Non per incapacità, certo, ma semplicemente perché i destinatari dei suoi piatti non erano in grado di sentire i sapori che con estrema cura generava quotidianamente. O almeno così gli riferivano. I pazienti mangiavano i suoi piatti per qualche giorno, e poi se ne andavano, mettendo fine a lancinanti sofferenze ed inutili agonie. Non era raro entrare in reparto e sentire quell’inconfondibile profumo di cipolla rosolata, l’odore del soffritto, che lasciava i patetici cugini, zii, e parenti tutti che venivano in visita un po’ storditi.
Capitavano i giorni in cui si sentiva inutile, cucinare per chi non sente i sapori, un po’ come far vedere un film ad un cieco, far sentire Chopin ad un sordo. Una cosa illogica.
Quando arrivavano quei giorni si confortava del fatto che, i suoi pazienti, assaggiati i suoi piatti morivano presto, quasi fossero pronti finalmente per andarsene, dopo aver finalmente riassaporato un piccolo assaggio di quella che era stata, a suo tempo, una vita saporitissima.
Forse era una cosa illogica, come quello che faceva, e come andare ogni anno in vacanza da solo nello stesso posto, ma le cose illogiche erano sempre state le cose migliori che avesse mai fatto.

Ci sono un ragazzo e una ragazza, che sono capitati qui per sbaglio. Due viaggiatori che si fermano quando sono stanchi e mangiano quando hanno fame, ogni giorno un posto diverso, non che abbia troppa importanza, ma non sono nemmeno mai tutti uguali, anche se da lì a poco andranno tutti a mischiarsi rendendo impossibile scindere i ricordi, se non per qualche episodio particolare. Lui è più grande di lei, e la custodisce con cura estrema in riva al mare mentre lei si addormenta. Sanno che il loro amore è destinato ad essere un po’ come il loro viaggio, intenso e magnifico, ogni giorno diverso, ma che presto resterà un ricordo che poco a poco sbiadirà come una scritta a matita su una pagina bianca, lasciando solo quelle poche tracce che restano scalfite e contribuiscono a far diventare le persone come sono. Si lasceranno e proseguiranno per la loro vita. Si dimenticheranno, a tratti. E Si ritroveranno un giorno quando saranno due perfetti sconosciuti, quando delle due persone che ora conoscono tutto l’uno dell’altra, non rimarrà traccia perchè forse, resteranno a vagare per sempre in quelle spiagge e su quelle strade, fermandosi solo perché stanchi, affamati o desiderosi di tenerezza, accettando di regalare la parte migliore di loro stessi a chi, nella vita reale, sarà solo una persona di cui parlare poco, e sempre al passato.

Di storie ne è pieno il mondo, e tutte hanno almeno un motivo per essere raccontate.
Il mare d'inverno é così, la gente torna a casa e nelle sue vie vuote, sui suoi lungomare, e tra le sue case chiuse e messe vie per l’inverno lascia un sacco di storie a viaggiare libere, in attesa di trovare qualcuno, da cui decidano irragionevolmente di farsi raccontare.


mercoledì 27 agosto 2014

Venti frecce gialle



Tra le prime parole che ricordo, ci sono quelle del Sacerdote il primo giorno: “Prendetevi un attimo per stare in silenzio e pregare. Lo so, e’ strano fare silenzio per chi ha 18-20 anni”. Si, ma io di anni ne ho 24 e non prego , almeno nella più classica delle accezioni, da una dozzina di anni. Sto in silenzio invece spesso, almeno una volta al giorno a guardare il lago, riflettere e pianificare il futuro. Immaginare posti e sogni bellissimi. In un certo senso prego moltissimo anche io, se così si può dire.
A 24 anni si ha quell’età in cui non si può già essere grandi del tutto ma nemmeno commettere più troppi di quei meravigliosi errori dei quali finora ci si è nutriti nel bene e nel male. Ed è forse per questo motivo che non più tardi di cinque mesi fa accettai di partecipare alla spedizione verso Santiago de Compostela. 170 km di pellegrinaggio da effettuare in sette giorni di cammino, 25 km di media con punte di 28. Partenza O’Cebreiro, un piccolo paese di case in pietra e tetti di paglia che sembrava galleggiare sul tappeto di nubi che copriva come una coperta la valle dalla quale siamo arrivati, e che guarda ad est, spettatore privilegiato dell’alba galiziana.
La statale LU-633 si snoda come una stringa tra le montagne che segnano il confine tra le Castilla Y Leon e la Galizia, disegnando dei grigi origami tra il verde dei prati, nei quali, determinato come il passo di chi lo percorre, si fa strada il sentiero del cammino di Santiago, con le sue conchiglie di Finisterre e le frecce gialle a far le veci delle antiche stelle per indicare la via ai migliaia di pellegrini che da centinaia di anni lo percorrono dimenticandosi di dolore e fatica.

Delle volte non sappiamo prima il motivo di certe scelte, le facciamo all’oscuro seguendo una flebile pulsione nascosta ma insistente che proviene dall’interno. E per capire il motivo di quella pulsione 170 km non sono sufficienti, come probabilmente non lo sarebbero nemmeno gli 800 e passa da cui parte il vero cammino. Forse servirebbe anche percorrerli per conto proprio questi chilometri, ad indagare dentro se stessi la vera inclinazione della propria anima, per sentire che cosa ci sta sussurrando forte. Ma da tempo ho imparato che i programmi e le aspettative del viaggiatore vengono completamente stravolti non appena si è sulla strada. Perché le 19 persone con cui ho percorso il cammino sono stata in effetti la sorpresa e il dono più grande: tanto coraggio ed occhi profondi custodi di storie a volte difficili ma aperti e speranzosi verso il futuro, ansiosi, tutti, di risposte alle domande che a quest’età tormentano certe notti bastarde. Ognuno con le proprie motivazioni ed i propri limiti da superare. Io con La sete di cerveza e la voglia di sorseggiare attimi nuovi.
Tutte cose che si possono apprezzare solo quando si è nel mezzo del cammino con Santiago ancora lontana, a suggerirmi che si vive solo distanti e d’istanti, in quel momento in cui non si vede l’ora di essere lì esattamente dove si è. Perché le vere risposte non arrivano a Santiago, arrivano un po’ tutte lungo il cammino davanti agli spettacoli più improbabili, magari davanti a quelle stesse manifestazioni di piccolo affetto a cui normalmente non si fa caso. Ed allora anche un semplice “Hola, animo pregrino, buen camino!”, se pronunciata al momento giusto diventa la cosa che avresti sempre voluto sentirti dire.
Quando si parte per Santiago si riempie lo zaino con lo stretto necessario e con le domande e le cose non risolte che la vita ti ha fornito nel corso degli anni. Ad ogni tappa qualcosa si lascia giù, finche lo zaino rimane sempre più leggere e le spalle non fanno più male, giorno dopo giorno. Si abbandonano tutte le scorie che ci appesantiscono ogni giorno.
E durante il cammino si seguono senza sosta le frecce gialle che compaiono di quando in quando, inventandosi modi per ingannare la fatica ed arrivare prima alla prossima tappa.
Il paesaggio cambia ogni dieci km, così come i nostri discorsi e i nostri pensieri. Le montagne si trasformano in colline, i pascoli di allevamento in campi coltivati. Ci sono boschi autoctoni e boschi artificiali, verdi radure e distese di girasoli. Piante di More, tante. Pellegrini di ogni genere, età e provenienza, tutti con un “buen camino” in bocca ed il proprio zaino pieno sulle spalle. Tutti con qualcosa da abbandonare lungo la strada. Ci si sorpassa e ci si fa sorpassare, in continuazione. Talvolta ci si incontra alla tappa successiva, in alcuni casi addirittura nello stesso ostello. Nascono divertenti intese.
I contadini lungo il cammino lasciano del cibo per i pellegrini e ti salutano ad ogni minima sollecitazione.
Noi che cantiamo e intoniamo cori, ci portiamo avanti l’un l’altro, condividendo tutto quanto fino a quando la vediamo, La cattedrale, finalmente sullo sfondo del nostro viaggio.

Dire quello che ti regala il cammino di Santiago non è facile, come non è facile definirselo nella propria testa o ascoltare le risposte che ti arrivano, perché non arrivano mai impacchettate e pronte per essere usate. Arrivano molte volte per osmosi, per metafora, per esempio. Ma poi succede che ti senti più ricco di qualcosa, ed il motivo preciso non lo si capisce mai, ma in fondo penso che vada bene così.
A Santiago ognuno va col suo passo, a seconda delle gambe e delle motivazioni, così come del resto la vita la si vive a frequenze differenti. Ad alcuni i giorni sembrano anni, ostaggi delle paure che attanagliano, altri si trovano adulti dopo un soffio di vento, a chiedersi se forse non sia avvenuto tutto troppo in fretta e se solo quella volta avessi fatto qualche km in più o in meno e fossi arrivato troppo presto o troppo tardi a Santiago cosa sarebbe cambiato.
Passa un minuto, un giorno, un anno e poi la vita risponde, ed allora quelle frecce gialle cominciano a farsi intravedere in qualche bivio, sui muri freddi della città o ad indicarci qualche persona speciale, e il cammino ricomincia di nuovo da capo con le sue salite e le sue discese. Per raggiungere tutte le Santiago che capitano nella vita.

Perchè in realtà il cammino di Santiago non finisce mai per davvero, nemmeno quando pensiamo di essere arrivati finalmente in fondo. Infatti guardando bene lontano si riesce ad intravedere sempre una nuova e bellissima freccia gialla nascosta nella nebbia, che ci fa tornare a respirare a pieni polmoni ,ci indica una nuova felicità da raggiungere, strappare via e provare a fare nostra, ci fa credere, infine, in tutte le occasioni che ci riserva il domani, iniziando a camminare verso di loro senza vedere la cattedrale sullo sfondo ma sapendo comunque che bisogna fare fatica, non guardare in basso  e che qualcosa ci sarà alla fine di quella strada, accettando il rischio di credere che andrà tutto bene, senza il privilegio di sapere né come né quando.


domenica 17 agosto 2014

Il numero di agosto

Le riviste mensili e bimestrali, sia che si tratti di quelle di musica che di quelle di architettura, per restare nell’ambito di quelle che solitamente consumo, ad agosto propongono il numero estivo. E’ diverso dagli altri numeri, è più lungo e con contenuti molto meno attuali. E’ un numero quasi celebrativo. Il Rolling Stones, ancora quando c’era, di solito pubblicava classifiche di album o di canzoni, tirando di fatto le fila sulla musica che ha creato qualche fenomeno di massa negli ultimi 50 anni. 
Le Stagioni del lago non ha una cadenza mensile o bimestrale e non è nemmeno una rivista, ma con i viaggi che incombono tornerò alla cruda realtà non prima di riveder spuntare settembre e quindi mi sento in dovere di colmare il mio futuro silenzio stampa prolungato con un pezzo celebrativo appunto, proprio come fosse un numero estivo.

Settimana scorsa ho partecipato ad una cena tra amici denominata “la cena palindroma”. Non starò a spiegarvi il motivo di questo nome lasciandovi tutto lo spazio fantasia che desiderate per immaginare il motivo che più vi soddisfa. Uno degli argomenti di discussione della cena, come al solito, è stata la musica, affascinante e fedele compagna delle vite di tutti i commensali della serata. In particolare, si parlava della king kong 5 di una delle partecipanti alla cena. Per chi non lo sapesse la king kong 5 è una playlist fatta per un programma radiofonico di radio 1. Non è necessariamente la playlist delle 5 canzoni della vita, piuttosto quella delle 5 canzoni che vengono in mente rispetto ad un tema dato.
Quale occasione migliore del numero di agosto per regalarvi la mia king kong 5 rispetto al tema migliore di cui si possa parlare ad agosto: il futuro.
Ecco, in realtà, avevo scritto qualcosa come 130 canzoni lì per li, sono riuscito a sceglierne 10, 5 mi sembrava una tortura troppo grande, non ce l'ho proprio fatta, vogliate perdonarmi.

10.       The Zen Circus – “Vent’anni”
https://www.youtube.com/watch?v=5Dcx5hdlRCs
“Aprire una playlist sul futuro con una canzone che ha i verbi al passato può sembrare un controsenso. Tuttavia sono convinto che non si possa parlare del futuro e nemmeno immaginarlo se prima non si parta dal proprio passato e dagli errori fatti. Gli Zen Circus rappresentano in pieno il mio presente, e questa canzone racconta perfettamente cosa significhi avere o avere avuto vent’anni da poco. Non posso pensare a me domani senza ricordarmi di me ieri.”

9.     Florence and the Machine – “Dogs days are over”
“Delle volte si parte con calma per raggiungere le cose migliori. Un climax inarrestabile ed una meta ben precisa. Questa canzone è come un’alba sul lago, è un’idea che nasce lentamente tirando fuori pian piano tutto il suo carattere.”

 8.  Iggy Pop – “The Passenger”
“Quando penso a domani non è mai in un posto solo, non è mai con un solo lavoro o con un solo progetto in mente. Questa è la canzone che per me ha sempre significato viaggio. Ed è la canzone che metto sempre all’inizio di una qualsiasi partenza, sia che si tratti di andare in qualche posto, sia che si tratti di partire per un progetto nuovo.”

7.   Underworld – “Born Slippy”
“Ogni tanto mi riguardo il finale di Trainspotting, quando Renton ruba il borsone dei soldi e scappa lasciando i suoi amici a cercarlo. La liberazione dalla dipendenza, che si tratti di droga o di qualunque cosa ci costringa in una dimensione diversa da quella che ci faccia stare bene unita alla meraviglia del ricominciare da zero quando si tocca il fondo. Questa canzone è la mia assicurazione, è una cassetta di sicurezza all’aereoporto, è un passaporto falso, è il borsone di cose che contano che mi porto dietro non voltandomi più indietro, lasciando i demoni a cercarmi per sempre.”

6.   The Chemicals Brothers -  “Another World”
“Le estati che vivrò, le immagino calde ed asfissianti. Si smette di pensare e ci si lascia trasportare senza opporre resistenza. Persi per il mondo. E’ quella fase della vita dove è bello vivere il momento, in una situazione di stallo, ubriachi di presente, in pausa da tutte le idee e le aspettative. Utili per ricaricare le batterie e fare il pieno per tornare più forti di prima”.

5. Bruce Springsteen – “No Surrender”
“C’è una canzone ed album del boss per qualsiasi stato d’animo o momento della vita. No Surrender è la raccomandazione di chi ti vuol bene e sarà sempre qui ad aspettarti quando tornerai, che ti sosterrà e saprà dirti le parole giuste sempre, in qualunque situazione.”

4. Tne Thermals – “Power doesn't run on nothing"
“Non riesco ad immaginare un futuro che vada ad una velocità diversa da questa canzone e che non sia un po’ informale e buttato lì come si addice al migliore punk. I Thermals per me sono le parolacce in una cena di gala, sono il jeans strappato all’esame di laurea, sono il dito medio di fronte a tutto ciò che è noioso, inquadrato e formale, sono quella parte di me che non morirà mai”

3.   Bedouin Soundclash – “Brutal Hearts”
“l’amore per cui vale la pena vivere è folle e brutale del quale ci si possa inebriare in giro per il mondo, sentendosi a casa solo in un abbraccio stretto e deciso. Un amore a cui non basti mai e che non si accontenti di nulla, sempre curioso ed affettuoso, comprensivo e stimolante. Che metta i piedi sul cruscotto, guardi l’orizzonte e conservi nel grembo i ricordi più belli.”

2.   Radiohead – “Gagging Order”
"La serenità data dalle cose semplici, dopo aver girato per ogni angolo di mondo, a cercare qualcosa che ci faccia sentire vivi per poi tornare e riuscire ad essere felici per ciò che gia abbiamo. La semplicità è l’elisir di lunga vita migliore che ci sia. "

1. Coldplay – “Clocks”
 “Quella scintilla dentro di me che mi fa sempre guardare avanti con la speranza e con la convinzione non tanto che tutto andrà bene, ma con la certezza che sarà tutto, sempre, meglio di prima.”

Buon agosto.

p.s.
Soltanto un saluto all’attore che fin da quando ero bambino ha prestato il volto, il corpo e lo spirito a personaggi del cinema che sono stati per me eroi, modelli ed amici. Semplicemente l’attore che più di ogni altro ha saputo creare un mondo in cui i sogni fossero i protagonisti del film. Aveva quel rarissimo dono che hanno certe persone di saper far ridere e commuovere quasi all’unisono e per queste due cose, gli sarò sempre grato.






martedì 22 luglio 2014

Neve su Piazzale Loreto



Il treno sarebbe partito da lì a due ore. I collegamenti da Milano a Domodossola, durante quella fascia oraria, latitano da ormai troppo tempo. Inutili sono state le correzioni degli orari operate solo un mese fa, quella fascia oraria, quella dalle 9 alle 11, è rimasta sguarnita. Venerdì mattina, ancora frastornato, mi sono concesso un giro per Corso Buenos Aires, fino ad arrivare a piazzale Loreto. 
C’ero già stato con uno stato d’animo simile, a piazzale Loreto, qualche mese fa, una notte fredda di pieno inverno. Ricordo che iniziò a nevicare proprio quando oltrepassai piazza Argentina.

Fa molto caldo. Un caldo afoso e soffocante. Cammino per tutto corso Buenos Aires senza un vero e proprio obiettivo, se non quello di far passare quelle due ore da solo, prima di tuffarmi nella nuova realtà che mi aspetta, prima delle lacrime, dei ringraziamenti estenuanti e dei pranzi senza fame.
Mi sono rifugiato alla Feltrinelli. Uno sguardo ai best seller, ai libri più datati. Ho indugiato sulle guide della lonely planet in offerta al 15%, tutti luoghi esotici, per così dire: India, Brasile, Thailandia, Israele e territori palestinesi, la guida della lonely planet é una sola, lascia da pensare. Ho sfogliato quella degli Stati Uniti orienali, c'è un locale nel nord del New Mexico appartenuto a Buffalo Bill, così c'era scritto, suonano musica country convinta, molto spinta, quella vera. Chissà quanto devono essere buoni gli hamburger. Ho scavato nel bidone dei cd in offerta. Ho comprato il best of di Johnny Cash e quello di Bob Marley, non gli ho ancora ne aperti ne ascoltati., lo farò settimana prossima. Ho comprato il DVD del film di Springsteen che cercavo da luglio. 28,60 € in totale, niente sacchetto che tanto ho lo zaino. Ho pagato in contanti.
Da Muji vendono delle magliette compresse in un cubo di lato 5 cm, ideale da tenere di scorta, magari sul fondo dello zaino di Santiago. Mille tipologie di quadernetti diversi, li vorrei prendere tutti. Mi sposto verso Garibaldi, ancora un’ora per me. Un giro nella zona nuova. Una nuova Milano per il futuro. Mi attardo in piazza Gae Aulenti, cercando di decidere una volta per tutte se mi piace, ma purtroppo, ancora una volta, sono costretto a rimandare il giudizio. 

Il binario del treno non esce mai quando sei in anticipo. C’è quello per Torino Porta Susa però, per Bologna, per Venezia. C’è il treno per Genova, da cui potrei poi proseguire verso Ventimiglia ed arrivare al confine con la Francia. Lì poi le destinazioni potrebbero essere diverse. La lavanda della Provenza, verso ovest nella Camargue, oppure tra le gole del Verdon, o magari puntare diretti verso nord-ovest, Bordeaux, e da lì l’oceano.
Inizio a pensare che tra poco dovrò cambiare i tempi verbali, usare il passato quando parlerò di te. 
Esce il binario del malpensa express, e per attimo penso a quando tempo fa non si viaggiava così spesso in aereo, o almeno, non ci andavano proprio tutti quanti. 
Allora il mondo era molto più lontano. 
Mi ricordo quando eri andato in Equador ed eri tornato a raccontarci quel mondo così diverso dal nostro. Ci sono stati anni sereni ed anni difficili, solo tu sai quanto. Rileggerò spesso le ultime mail che ci siamo mandati, così vere ed intense, così piene di sogni e di speranza, cercando di riuscire a portarne avanti un po’ di quelle idee da solo. Fortunatamente in una di quelle mail sono riuscito a dirti quanto ero contento di averti qui questi mesi, rammaricandomi di non poterti seguire in giro per via degli esami che incombevano, di quanto fossi felice di poter  parlare con te e di passeggiare sul lago durante i miei ritorni a casa, a discutere di tutte le idee pazze che ci frullavano in testa. Non mi sarei mai perdonato il contrario. Questi mesi sono stati un regalo un po’ per tutti noi. Succede delle volte che la vita ci concede un tempo bonus per riuscire a salutare tutti come si deve, come se regalasse a chi se lo merita qualche giorno in più di quelli che il destino, come uno zelante impiegato, ha previsto con severa determinazione ed incomprensibile arbitrio. Quel tempo regalato come quando ai concerti il gruppo saluta il pubblico troppo presto, ma poi torna fuori per un paio di canzoni in più perchè le urla dei fan sono troppo insistenti. E la mente allora vola a quando quella stessa vita era più leggera e più semplice, le prime vacanze al mare nella casa a Lignano, con me e Laura bambini, a giocare con la sabbia e raccogliere conchiglie, svegliarsi all’alba per andare in spiaggia con la marea ancora bassa, il sole pallido e le prime scintille a macchiare l’acqua,  a quei giorni che tutti noi conserveremo come il più prezioso dei ricordi, in quella scatola foderata di dolcezza che ci porteremo in giro ovunque saremo, e che apriremo certe sere in gran segreto, al buio, soffocando le lacrime, con il pudore del dolore e tirando fuori tutti i momenti belli che abbiamo vissuto con te, o quando saremo davvero stanchi del mondo e di questa porca vita, ricordandoci di non mollare mai, come hai fatto tu.
Poi di colpo esce il binario, riportandomi alla realtà. Binario 6. Nessun ritardo purtroppo.
Salgo con il caldo afoso di una giornata di metà luglio e dopo poco il treno parte con la sue inconfondibile lentezza, fuori ci sono 37 gradi e Piazzale Loreto dista qualche chilometro, ma sono sicuro, che la neve, sia tornata a cadere proprio in questo istante.


P.s. ti saluto con Can’t Help Falling in Love. E’ la canzone con cui Elvis chiudeva i suoi concerti. Ciao caro.





giovedì 10 luglio 2014

Un post senza senso

Le ultime settimane di pioggia mi hanno fatto assopire la fantasia e mi hanno trasmesso un sacco di voglia di essere banale e nazionalpopolare. Ho parecchia voglia di scrivere quanto sia bella la pioggia che cade. E poi basta. Magari pubblicando "November rain" dei Guns’n’roses o peggio ancora “Piove” di Jovanotti, così, appunto per essere banale.
Non farò tutto questo, in compenso scriverò un pezzo senza un vero e proprio senso compiuto.



I temporali estivi arrivano silenziosi in lontananza, molto spesso lentamente e sempre senza chiederci il permesso. In un attimo il cielo diventa scuro e sale l’attesa, ma non piove mai quando pensiamo che lo faccia, inizia sempre quando siamo distratti. Dopo che se ne vanno lasciano sempre qualcosa di strano. Qualcosa come l'aria fredda e la voglia di ricominciare. La calma meritata e l'orizzonte più colorato di prima. Lavano via le strade, i prati e lasciano tutti gli alberi stanchi e bagnati. Sfidano la nostra pazienza e il nostro coraggio. Ma c'è sempre chi sfida i temporali per riuscire a fotografarne la magia. Per cercare di portarsi a casa una scintilla di quella violenza e rubarne l'essenza, copiarne l'anima, cercando di appropriarsi della loro determinazione da usare domani quando ci sarà quel silenzio bianco su cui scrivere una nuova pagina. La foto del fulmine.

Non so se sia più bello il momento prima della tempesta o quello subito dopo. Il durante non lo prendo nemmeno in considerazione. Le cose non sono belle quando accadono, ma solo mentre si aspettano o quando si ricordano. Del resto, il presente non esiste nemmeno, o meglio, esiste, ma è come un fulmine nella tempesta, dura un soffio, un minimo istante, eppure sapevamo tutti che stava per arrivare, così come lo ricordiamo anche dopo. Il presente è così, è il continuo rimescolarsi di prima e dopo.

E così infatti, ci sono quelli che non vedono l’ora che arrivi domani ma non smettono di parlare e ricordarsi di ieri. Quelli che insomma vogliono andare dovunque nel mondo ma vedono l’ora di tornare a casa, spesso ancora prima di partire, sospesi ancora una volta in questa tempesta di fulmini che si presenta anche d’estate, quando la testa dovrebbe essere in vacanza, quando non dovrebbe nè sperare nè ricordare. Hanno fatto settembre per la malinconia, l’hanno messo apposta dopo l’estate.

Ma se dev'essere temporale allora va bene, allora adesso, prima che arrivi, penso a tutto quello che mi aspetta. E non sto sotto l’acqua ad aspettare che il fulmine mi castighi, questo no, cerco di schivarli e al massimo, come dicevo, a farlo mio, a fargli una foto per ricordarmelo meglio, cerco di prendere il meglio dal presente per vivere meglio il futuro. E fino che il temporale non arriva posso immaginarmi tutto come voglio che sia.

Penso al lavoro che voglio fare e a quello che non voglio fare. Intanto schivo e scatto. Penso che non si debba fare nulla di ciò che la gente si aspetti da noi proprio per il fatto che qualcuno se l’aspetta. Penso che vorrei viaggiare ancora tanto. Penso che poi le cose che contano sono sempre le più semplici. Clik. Penso che qualche rischio andrà corso per fortuna, e penso che tutta la vita la stessa cosa non la potrò mai fare. Penso che finchè il boss suonerà io andrò ai suoi concerti. Penso che il fatto di avere le capacità di far qualcosa ti dia l’obbligo morale di farla al meglio. Poi penso anche che per fortuna non ne so fare nessuna così bene quindi chi se ne frega. Clik. Penso che quando qualcuno mi giudicherà gli chiederò cosa davvero gli rode. Penso che voglio una casa da cui vedere il lago. Penso che alcune passioni delle volte sono le cose che ti salvano la vita. Gli ultimi tuoni prima di andare, e penso che si ama davvero poche volte nella vita.

E dopo che passa si sta lì a ricordare. Ricordo le strade statali della Spagna meridionale e il vento dell’Egeo. Ricordo i tramonti della Croazia e i brezel di Monaco. Ricordo il profumo di Champo e le ore di filosofia del liceo. Ricordo la prima volta che ho visto Pulp Fiction e quanto mi sembravano grandi certi prati da bambino. Ricordo gli scatti di Pantani e i dribbling di Ronaldo. Ricordo tante cose quanto quelle che sto aspettando, inluso i primi temporali e tutti quelli che verranno, perchè ci sono alcuni che quando fanno le foto ai temporali riescono sempre a prendere i fulmini, e ci sono altri che invece hanno soltanto un serie di foto completamente buie.


sabato 14 giugno 2014

Stagioni azzurre





La mia seconda liceo terminò intorno al 10 giugno dell’estate 2006, la più bella in assoluto che ricordo.
Fu l’estate dei bagni al lago tutti i giorni di quei mesi, delle uscite tutte le sere, quella dei primi coprifuochi non rispettati, della prima compagnia, della prima vacanza.
Fu l'estate dei mondiali in Germania.

Dopo due settimane di pronostici e commenti sulle convocazioni iniziarono i mondiali. A guidare la compagine azzurra c’era Marcello Lippi, toscano saccente di non molte parole, esperto condottiero della Juventus di fine anni ’90. Non partivamo favoriti, come sempre del resto. L’esordio azzurro Italia-Ghana si giocò una sera ventilata di metà giugno. Alle nove tribuna organizzata a casa di un amico, solo maschi, com'era buona norma in questi casi. La partenza qualche decina di minuti prima, giusto per non arrivare a ridosso. Motorini senza strozzi e casco con la visiera rigorosamente alzata per respirare a pieni polmoni il profumo della libertà che stavamo pian piano conquistando. Giorno dopo giorno, partita dopo partita. Dopo un chilometro o poco più la macchina davanti a me mi taglia la strada, volo per terra non mollando il motorino che si infrange sul paraurti della macchina. Non mi feci nulla, ripartii subito pensando che a meno che fossi in punto di morte dovevo andare a vedere Italia-Ghana. Circa quarantacinque minuti dopo Pirlo aprì le marcature. Il sangue sulle mie ginocchia si era già coagulato. Al gol di Iaquinta avevo già una meravigliosa cicatrice, la firma del nostro esordio sulla mia pelle, il lago, i giorni successivi, avrebbe lentamente lenito quella ferita simbolo della gloria che stava per cadere sulle nostre teste di sedicenni.
Giusto il tempo di qualche bagno, dopo i Griffin, com’era tradizione, e fu la volta di Italia-USA. Questa volta mi feci portare in macchina, finì uno ad uno e subito pensai che nell'incontro decisivo, tre giorno dopo, se fosse servito a vincere, sarei volentieri caduto un'altra volta. Italia- Repubblica Ceca la vidi a casa con mio nonno. Vincemmo agevolmente e staccammo il biglietto per la fase finale. Con mio nonni vidi anche gli ottavi e i quarti con Australia e l'Ucraina di Shewcenko, vecchio re Leone alle prese con gli ultimi spasmi di vita, vita calcistica, è ovvio. 
Nel mentre l’estate entrava nel vivo, aumentavano le serate e la nostra eccitazioni per una situazione a cui nessuno aveva immaginato. I pronostici cambiavano con la velocità di un temporale. In un attimo passavamo dall’ottimismo sfrenato al catastrofismo più totale. Dovevamo distrarci.
Organizzammo le vacanze, il nostro primo viaggio senza genitori. Destinazione Senigallia dove uno dei miei amici possiede (tutt’ora) un bilocale a due passi dal mare. La situazione ideale per dei sedicenni che non vedevano l’ora di tuffarsi in un paio di settimane lontano dai genitori rompicoglioni (non loro in particolare, ma i genitori come categoria sono rompicoglioni per definizione). Ma prima di partite c'era una semifinale da giocare, e per noi da vedere. Due giorni per decretare il posto migliore dove vederla. Scegliemmo il Flamingo, in cui andammo rigorosamente in motorino, a quei tempi lo usavamo anche per andare al cesso.
Bar gremito, tutto pieno, fortuna che andammo presto. Partita tesa, tirata. Ci si disperava di continuo per ogni occasione mancata, anche per i replay, si esultava anche per ogni rimessa laterale guadagnata. Un’atmosfera surreale. Quella semifinale fu senza dubbio la partita più bella, è scolpita indelebile nei nostri ricordi e rimane, ancora oggi, il simbolo di quel mondiale.
Arrivammo ai supplementari visivamente provati e proprio quando si avvicinò lo spettro dei calci di rigori Pirlo pesca Grosso in area, sulla destra, che con un magistrale colpo a giro al volo insacca facendo esplodere un paese intero che stava incollato agli schermi. Un tipo davanti a noi ricordo che saltando rovescio un litro di birra addosso a Ziopera. Iniziò ad esultare e bestemmiare nello stesso tempo, uno spettacolo grandioso, noi stessi non sapevamo se guardare l’Italia esultare o Ziopera fradicio.
Passarono due minuti, Cannavaro, ancora Cannavaro contropiede con Totti, Gilardino, Del Piero goal, ci fiondiammo alla porta pronti ad andare a finire la batteria dei nostri motorini con il clacson. Così successe in effetti. Il clacson del mio motorino non so riprese mai più!
Le vie di Angera erano gremite come mai mi capitò di vedere e si viaggiava a passo d'uomo.
Eravamo ancora in finale dopo dodici anni. La nostra prima vera finale. Di corsa a casa a chiudere la valigia perché da lì a pochi giorni saremmo dovuti partire per Senigallia.
Infradito costumi e la maglietta di toni, azzurra, la numero 9.
Il 9 luglio 2006 è un giorno avvolto nella nebbia del ricordo. Fino a metà giornata cercammo di fare come se niente fosse: bagni al mare, partite di beach volley, silos di stronzate.
Da metà pomeriggio in poi la tensione diventò palpabile a vista d’occhio.
Come finì è storia nota. Rigore di Zidane, lo sconforto, il pareggio di Materazzi, siamo ancora vivi, la sofferenza, la pizza che ci va di traverso, i tempi supplementari, un giocatore a terra, Buffon che corre, la famosa testata, uno dei migliori giocatori di sempre che finisce così male la sua carriera, sfila negli spogliatoi sfiorando la coppa del mondo, antipasto di ciò che sarebbe successo da lì ad un quarto d’ora. La Francia perse i mondiali in quel momento. 
L'Italia trattenne il respiro per un tempo interminabile sull'ultimo rigore, prima di urlare senza ritegno, da nord a sud, tutti uniti, per una volta, nel nome di una passione comune. Perchè noi italiani siamo così, giochiamo partite di calcio come fossero guerre e combattiamo guerre come fossero partite di calcio.
Esplodemmo tutti, quella vittoria era arrivata, nel momento migliore che ci potesse essere. Festeggiammo per ore, in giro per il lungomare di Senigallia in festa, quattro sedicenni lontani da casa nella prima e forse ineguagliabile stagione azzurra.

Per quelli della mia generazione i mondiali del 2006 furono più che mondiali, furono un simbolo d’identità che mai ci scolleremo, nonchè il culmine di un’estate meravigliosa vissuta al massimo.
Ora, dopo 8 anni, qualche stagione azzurra trascorsa, dopo un numero illimitato di coprifuochi non rispettati tanto da svanire del tutto, dopo decine di vacanze fatte e centinai di birre versate in gola e addosso a Ziopera, dopo aver visto quasi tutti i nostri eroi di quei giorni ritirarsi e dopo aver finito del tutto il liceo, abbiamo una grande, incredibile voglia di vedere ancora il mondo colorato tutto di azzurro.