sabato 24 agosto 2013

Desperate Housewives - I Segreti della Casa Rotta


Esistono cose nella vita che si danno ormai per scontato. 
Per esempio: Se stai cercando un qualunque oggetto che vuoi comprare, il negozio subito dopo a quello dove comprerai il tale oggetto, lo venderà sicuramente più bello e che costa meno. Gli spaghetti aglio, olio e peperoncino se li mangi dopo mezzanotte sono indubbiamente più saporiti. Gabriel Garko è un cane a recitare. Il Todo Modo fa le crepes più buone al mondo. E’ sicuramente l’anno buono per comprare Hernandez del Palermo al fantacalcio (ci salva solo il fatto che siano retrocessi, entrambi). Il lunedì sera in inverno, su rai due, c’è voyager.
Ecc.
In quest’ultima settimana sono venute meno diverse certezze che mai avrei pensato potessero essere inesatte (nessuna di quelle elencate prima per fortuna). 
Negli ultimi sette giorni ho vissuto a casa di un mio amico, mentre lui era in ferie, in giro per la Bretagna, tra fari, scogliere e creperies (gliel’ho detto che tanto la migliore al mondo la fanno appunto al Todo Modo, a Milano, ma niente). Ho fatto il custode per una settimana, il guardiano del faro, per dirla in maniera pittoresca. Ho sempre sognato in effetti di fare come lavoro il guardiano del faro, motivo per cui la sera, ogni tanto, tenevo puntata una pila verso il bosco, muovendomi in senso orario, in attesa di scorgere navi in lontananza, o più probabilmente cinghiali.
Non che fosse una roba che spacchi la schiena, chiariamoci, le mie mansioni si limitavano a curare che non entrassero ladri e malintenzionati e dar da mangiare a gatti e tartarughe. Ah giusto, i gatti mi stanno sulle palle, parecchio. Pensano che gli sia tutto dovuto, soprattutto quello tigrato che appena aprivo la portafinestra della sala scattava e cercava di entrare in casa. L’avrei torturato. Le due tartarughe mi sembrano animali tristissimi. Mi ricordavano il Mignolo col Prof, quella coppia di topi protagonista dell’omonimo cartone animato, che ogni sera provavano a conquistare il mondo; loro invece ogni giorno cercavano “the great escape”, salvo poi ricadere in acqua dopo il primo flebile tentativo di scalare le pareti verticali e viscide della loro vasca.
Ma comunque, vi racconto perché non ho più certezze.
Fino a settimana scorsa pensavo che le case funzionassero da sole, avessero come dire, vita propria. Non è così.
Dopo il primo giorno nella nuova dimora, presto mi accorgo che c’è qualcosa che non va. Scopro che alcune macchie sul pavimento, non spariscono da sole. Ci sarà qualcosa di rotto nell’impianto di pulizia pensai. Piccolezze.
Dopo il secondo giorno, butto i vestiti sporchi nella cesta, e non riesco proprio ancora a capire perché non sono tornati puliti e stirati sul mio letto dopo un paio di giorni. Di solito a casa mia funziona così. Misteri.
Dopo il terzo giorno finisce l’olio. Cerco un’altra bottiglia. Ovunque. Nella dispensa, nel ripostiglio, nei cassetti, sotto il materasso, nella vasca delle tartarughe, scavo buche in giardino, niente. Non c’è più olio, scemo io che credevo che certi ingredienti tipo olio appunto, ma anche zucchero, sale venissero venduti insieme alla cucina al momento dell’acquisto e la cucina stessa gli generasse ogni qualvolta ce ne fosse bisogno. Non mi ero mai posto il problema che finissero.
Non ci sono più dubbi, questa casa non funziona, pensai. Scopro così che le case non hanno vita propria. 
Ma le mie disavventure da scapolo non finiscono qui. 
Ho scoperto che fare la spesa può essere delle volte parecchio traumatico.
Vado a fare la spesa in un piccolo supermarket di Sesto Calende, parcheggio lontano tre km perché almeno non devo pagare il parchimetro, quando arrivo davanti alla porta scorrevole del market vedo un cartello che leggerebbe anche un cieco: parcheggio 200 m. Merda! Pazienza, portare le borse della spesa è meno costoso che andare in palestra. Entro e sono circondato da un esercito di nonne che si destreggiano tra i reparti del supermercato come Alberto Tomba tra le porte di uno slalom speciale, alcune mi guardano con aria sospetta, come se un ragazzo di vent’anni che va a far la spesa deve per forza avere qualcosa di losco in mente. Esito mezzo secondo sulla bilancia mentre peso le banane perché non trovo il tasto giusto e inizio a sentire il popolo alle mie spalle che rumoreggia, brontola. Schiaccio un tasto a caso e scappo rifugiandomi tra gli scaffali della fila parallela, quando un’angelica voce di settantenne mi chiede: “mi scusi lei che è un ragazzone così alto (????) non è che mi prende lo scottex che non ci arrivo?!”.. ecco se io sono alto per la signora immaginativi quanto potesse svettare lei, roba che se cadeva dal marciapiede si rompeva un femore.
Alla cassa passano la mia merce, la cassiera arriva alle banane, mi guarda e dice: "perchè hai l'etichetta dei peperoni? hai sbagliato a digitare?"... "storia lunga signorina".
Pago e mi faccio i miei 3 km a piedi con le borse, una si è completamente sfondata esattamente a tre metri dalla portiera della macchina.
L’ultimo giorno pulizie. Panico. La paura che attanaglia. Mi scopro assolutamente inadeguato e impreparato. C’è stato un attimo che ho pensato che forse, avrei fatto prima a ripiastrellare tutta la cucina, ci avrei impiegato meno tempo.


Ma a parte questi piccoli inconvenienti non posso non ammettere che amo vivere da solo. Amo gestirmi i miei tempi e i miei spazi, poter avere sempre la casa piena di amici e lasciare in giro quel fantastico disordine sistematico entro il quale non si perde mai niente (forse perché in realtà si perde tutto). Già perché, un’altra delle certezze della vita è che le case, sia quelle che funzionano sia quelle rotte, hanno il potere di rubare, nascondere e custodire nel loro ventre, ricordi, gioie, dolori, scene di vita, cene tra amici, spaghetti e film di mezzanotte, e molte volte anche oggetti, che si perdono, che vengono inghiottiti, e che come per magia, non si ritroveranno mai più.

(sto attraversando una preoccupante fase rap, forse però in effetti mi sarebbe servito lui...)


venerdì 16 agosto 2013

Chissà se in Spagna passano gli Who...

Vi avviso, non troverete qui il diario del mio viaggio, né una sequenza di fatti di tutto quello che è successo. Quei racconti perderebbero troppe sfumature nel nero sul bianco, ma io e i miei compagni di viaggio saremo sempre ben lieti di condividere a voce con chi lo vorrà le storie di quei pochi giorni vissuti sulle strade spagnole.



La meta era chiara fin dal principio, fin da quando, mesi fa, passavamo alcune tristi e ancora fredde serate di marzo a pianificare senza sosta queste due settimane di agosto, volate via, come trasportate da una brezza arrivata forse da nord, lasciando dietro qualcosa che non si insegna, non si trasmette, non si cerca, semplicemente si trova. 
L’obiettivo, dicevo, è sempre stato arrivare a S.Sebastian il 10 agosto, giorno d’inizio della “Semana Grande”, l’evento più pittoresco dei Paesi Baschi. 
Per chi non c’è mai stato, proverò a descrivervi S.Sebastian, Donostia in lingua basca. L’errore più comune che potreste fare, ora, è immaginarvi una città, con strade, palazzi, vicoli, monumenti, persone, automobili, semafori, grattacieli. 
Immaginatevi invece, se riuscite, una donna. Una donna elegantissima e sofisticata, oltremodo affascinante, di un’età indefinita, a cui noi, veri signori, non chiederemo inutili precisazioni, adagiata ai piedi di montagne che arrivano a lambire la costa con qualche sperone a picco, e che nel suo grembo culla le onde di un oceano che si fonde con un fiume, dividendola a metà, a tratti il fiume entra nell’oceano, altre volte, è l’oceano a scatenarsi verso l’interno dimostrando un carattere tutt’altro che sottomesso, direi anzi quasi burrascoso, ostinato e prepotente.  
Seducente ed orgogliosa, come una vecchia Dame che nonostante gli anni sa ancora come essere sensuale, si compiace della sua bellezza al tramonto, quando sembra catturare malcapitati pittori con un passato da marinai, talvolta pazzi ed ubriachi, che nel tentativo di far colpo dipingono indescrivibili colori sul suo cielo, che come una tela, accoglie quelle incredibili sfumature che rimangono incise, per poco tempo, ma con la passione di un amore travolgente, prima di scivolare inesorabilmente verso il basso, scansati dalla notte, a perdersi nello sconfinato infinito dell’oceano mare.

Questa era la meta, ma prima, davanti a noi 4500 chilometri, la costa sud della Spagna, e tante aspettative. La voglia di staccare con tutto per due settimane e perdersi nei sentieri del gusto, dei sapori, dei costumi, delle tradizioni di un paese che da sempre è il crocevia dei miei percorsi più azzardati e tremendi. La terra nella quale volente o nolente passo a tirare le somme e a caricare le pile prima di partire per un altro pezzo di qualcosa, che solitamente non so bene cosa sia. 
Esistono situazioni nella vita che si presentano ciclicamente. Una di queste, per me, è la spiaggia di El Saler, dieci chilometri ed ovest (o forse est..) di Valencia. Rivederla dopo esserci capitato per caso quattro anni prima, e riscoprirla uguale, sempre ventosa, sempre con il porto sullo sfondo, non propriamente bellissima quindi. E mentre ero sdraiato su quella spiaggia, a domandarmi se pure la spiaggia mi avesse trovato uguale o un po’ cambiato, scopro di essere lì a riflettere sulle stesse cose a cui pensavo anni prima. O meglio: sono cambiati alcuni protagonisti, anche le protagoniste, anche se parrebbe non poi così di molto, sono cambiate una marea di situazioni e certe aspirazioni, ma lo spaesamento di quando si finisce è rimasto lo stesso. E dopo una delle folate di vento più intense capisco che la mia paura più grande è aver paura di ricordare. L’altra è guardarmi indietro e pensare di non aver fatto abbastanza, di essere stato inadeguato in qualcosa, di non aver vissuto a pieno. Ma anche a Valencia arriva poi la notte, e di chilometri ne abbiamo ancora parecchi. Lungo la strada scopro posti di cui mi ero innamorato, altri che avevo accantonato, certi che avevo snobbato, nascono poi piacevoli sorprese. Quei vicoli di Tarifa, quando vorresti che la notte non finisse mai, ma proprio mai, perché ad avere un paio di vite di scorta probabilmente me le giocherei qui. Eddai insomma, l’oceano, il cibo, il caldo, le… che ve lo dico a fare.
Il viaggio che si trasforma in un vagabondare spinti dalla voglia di provare nuovi cibi, quando si dice prenderci gusto, attraversando la meseta, mille chilometri di entroterra, per arrivare finalmente alla mecca dei pinxtos e del mangiar bene. A vedere la semana grande che inizia, espolode a dir la verità, e il nostro viaggio che finisce, e noi, che ce l’abbiamo fatta.

Perché si, è vero, la meta era chiara e precisa, ma il meglio si sa, lo si incontra sempre per strada. In fondo poi è così, si viaggia perché a star fermi ci si fa troppo male. Si viaggia perché le risposte arrivano da sole. Si viaggia perché nella vita si viaggia sempre, e di bivi se ne incontrano molti, un po' tutti i giorni. Ma la cosa che ho imparato, è che in realtà se la meta è ben chiara, ogni strada è quella giusta, ogni strada ti può dare qualcosa di buono. Certo, delle volte si prende l’autostrada, anche se costa e non è bellissima, perché bisogna fare in fretta, altre volte invece si può perdere tempo tra i tornanti delle statali che costeggiano l’oceano e talvolta pure fermarsi a fare una foto al mare che svanisce.
Delle volte si viaggia per capire se la meta è giusta. O forse, per ricordarsi che era giusta la meta di prima. Vivere è questo, fare ogni giorno un pezzo nuovo di strada, con la gente giusta al proprio fianco, con la musica che ti accompagna, con la malinconia per il posto che si abbandona che combatte con l’esaltazione di scovarne uno nuovo. e poi… e poi con l’allegria di un tapas bar di Siviglia, con un cielo stellato di Tarifa, con una  nottata di Salou , con una targeda del grand hotel di Almerìa, con un orizzonte di San Josè, con una spada di Toledo, con un pinxtos di Donostià, e con un sogno di qualche città che ancora non c’è.
Vita è tutto questo, e dopo viaggi così penso che non ne vorrei una diversa per niente al mondo. 
In fondo ce lo chiedevamo prima di partire, e poi in macchina quando cantavamo con tutta la forza possibile mentre raggiungevamo la prossima meta, e ogni tanto ancora ce lo domanderemo: chissà se anche in Spagna passano gli Who…


A breve linkerò le foto, una volta accumulate tutte...
Ringraziamenti doverosi:
Alla “nostra” lancia Phedra, per aver resistito, che cuore. 
A quelli che facevano casino fuori dalla nostra tenda per aver scatenato l’ira di Paro (vice campione europeo di kick-boxing). 
A “Zucco”, per averci fatto divertire pur non sapendo bene chi fosse (c'è chi narra che stia ancora cercando una piazzola dove mettere il camper). 
Al Cameriere di Valencia, per le preziose lezioni di spagnolo (più simile all’italiano di quanto si pensi). 
Ad Adriano Pappalardo per aver scritto “Ricominciamo”. 
Alla “Chica” di Salou che tiene l’hombre, cazzo.
Alle chiche di El Saler per farci sapere che se pensano ad un italiano pensano a Federico Moccia (sempre poi meglio di Berlsuconi). 
Alla polizia di S.Sebastian per non averci arrestato quando ci siamo trovati circondati da branchi di sedicenni armate di shorts e reggiseni. 
Ai tapas bar dell’andalusia per averci insegnato a friggere i frutti di mare. 
A tutte le persone che abbiamo conosciuto, soprattutto quei tre folli di Bologna, incontrati giustamente a Siviglia. 
Al popolo ucraino, un po’ per tutto. 
Alle stelle cadenti di Tarifa (anche se forse è un po’ presto per ringraziarle)
A Ligabue, Rumatera, Dargen D’amico, 883 e Bruce Springsteen per una parte consistente della loro discografia che ci ha accompagnato ad ogni chilometro. 

E infine a Lorenzo (Adriano), Andrea (Andreone Nazionale), Alessandro (National Diadione), Chiara (Luis Hamilton) e Chiara (Stini Shock), impareggiabili ortolani, viaggiatori favolosi, amici veri.