mercoledì 29 maggio 2013

La Casa Tutta Bianca

Sentendo questa canzone http://www.youtube.com/watch?v=AGD8B7vRbyMho visto questo:

Il sole filtra a fatica tra i rami dei platani che incorniciano una strada, lunga, circondata da grandi case, tutte uguali, e tutte diverse.
In fondo alla strada c’è una casa bianca. Più diversa delle altre. Più bianca delle altre.
Lungo la strada, dei bambini in bicicletta fanno a gara a chi arriva primo all’albero grande, a forma di fionda, chi vince, si becca la gloria. Un grande cane peloso abbaia, facendo sbandare uno di loro. Un uomo sta tagliando il prato e urla ai bambini di rallentare, di fare più piano. Intanto, la donna dall’altra parte della strada, in ginocchio a potare le rose, sorride. Passa una macchina rossa che suona il clacson e spaventa così le due gazze sul ramo dell’albero grande, a forma di fionda, e scappano, verso le biciclette che sfrecciano, a sollevare le foglie secche ai margini della strada, le biciclette. Uno scuolabus giallo, si ferma, apre e riparte.
Scorre, la vita, come ogni giorno.
Corre.
Passa.
La casa bianca è di due piani, con un porticato in legno, bianco anch’esso, ha delle finestre con gli infissi a quadri, bianchi. Ha un prato con davanti un gazebo, bianco, decorato, ornato, abbracciato dall’edera, appiccicata alle stecche di legno. Sul lato destro, a rompere la simmetria perfetta della casa, c’è una veranda, nascosta, nemmeno troppo bene, da un cespuglio verde scuro.
Nella veranda della casa bianca, a guardare con cura, si vedono due sagome, di un uomo e di una donna, sembrerebbero abbracciati, in quello che dovrebbe essere il soggiorno, in quello che dovrebbe essere un loro momento d’intimità, pare, a lungo desiderato, a lungo sognato, a lungo immaginato. E la luce del tramonto li illumina un poco, in quella penombra di desiderio, gesti pacati, leggeri ma decisi, conditi di sincera passione, tagliano i raggi di sole, che filtrano dalla veranda, ultimi guizzi di un giorno che fugge.
L’uomo sta lentamente spostando una frangia sbarazzina dagli occhi della donna, lucidi, imbarazzati, mentre lei lo guarda, incantata dall’esattezza di quell’istante, e intanto, un timido sorriso, si palesa sulle sue labbra in attesa, pochi secondi, lunghi come una strada, circondata da platani, con in fondo una casa bianca.
l’uomo e la donna stanno lentamente salendo le scale, cercandosi l’un l’altro, negandosi a tratti, per poi ricercarsi. Piccoli gesti fugaci, di chi ha paura di osare, eterni bambini, sommersi di timidezza, a creare complicità dal niente mentre i vestiti scivolano a terra, lentamente, sui gradini, ogni gradino un capo, illuminati, alcuni, dal sole che entra, spettatore casuale di un attimo di perfezione.
E in quel corridoio, a pochi metri alla camera, la timidezza evapora, sotto il calore di quella passione che arriva da lontano, al prezzo di anni e chilometri. 
In un turbinio di gesti ad occhi chiusi, si mescolano insieme, l’uomo e la donna, intrecciati in quella stanza, e il sole, si è ormai nascosto a lasciar spazio ad una luna priva di vergogna.
Non si negano più, ora, i due corpi, le due anime, fino a quando, appagati l’uno dell’altro, si lasciano andare, folli, ad un attimo di felicità, tenendola stretta, prima che fugga in un lampo, così com’è arrivata.
Rimangono così, e pare, potrebbero rimanere lì per sempre.
In strada, non ci sono più biciclette, bambini, forbici, sorrisi, rose, prati, cani, macchine rosse, clacson, gazze, autobus gialli. Tutto dorme, sereno, attorno alla strada, circondata dai platani, e nella casa bianca in fondo ad essa, dove finalmente, il sole, l’indomani, sarà contento di tornare.


Cose come queste succedono, ogni giorno, in qualche casa tutta bianca in giro per il mondo.

martedì 21 maggio 2013

La Teoria di Johnny B. Goode


Questo post fa schifo. Vi avviso.
Fa schifo perché è una raccolta di riflessioni che ho da un po’ di tempo ma non sono ancora riuscito a declinare bene nella mia mente, per cui, provo a scriverle, che chissà mai.

Allora.
Ogni mese compro il Rolling Stone. Non lo prendo ad inizio mese, mai, sempre a metà o addirittura alla fine, quando è già scaduto, quando prende già le sembianze di una piccola reliquia. Non c’è un motivo in particolare, è una mia fissa. E non ho l’abbonamento, lo compro tutti i mesi in edicola. Non l’ho mai amato l’abbonamento, forse perché non voglio privarmi dell’immenso piacere narcisista di entrare e dire: “salve, rolling stone, grazie”. 
Abbonamento 29 euro l’anno mi pare, comprarlo tutti i mesi circa 42. La cazzata narcisista mi costa 13 euro l’anno. Ci sta dai. Ho fatto cazzate molto più costose, mi giustifico così. Tant’è che sto mese, sfogliando come mio solito le pagine finali in cui compaiono le recensioni dei nuovi dischi mi imbatto nel nuovo album dei !!!, (si legge shk, shk, shk o bam bam bam, o tum tum tum o come volete). Gruppo che era tremendamente in voga nel mondo di metà degli anni ’00, il mondo post torri gemelle, quello dei primi viaggi low cost… dai, quello della testata di Zidane, per intenderci. Leggendo la recensione di un ottimo Emiliano Colasanti, non ho potuto non percepire una sorta di responsabile e dignitosa nostalgia nelle sue parole. Parlando del nuovo album comparato allo storico Louden Up Now dice: “e bisogna dirlo, quei !!! battono questi !!!. Anche noi, d’altronde, eravamo più giovani, ballavamo meglio e credevamo di avere un futuro radioso alla nostra portata. E siamo ancora gli stessi, chiaro, ma di certo giù in strada c’è qualche ragazzino che potrebbe farci venire qualche complesso d’inferiorità, e avrebbe anche ragione. Noi però eravamo al posto giusto nel momento giusto, come i !!! di allora, e questo non potrà togliercelo davvero nessuno.

Qualche sabato fa ho provato la stessa sensazione. Me ne stavo lì, a vedere gli EIFFEL 65 suonare sul palco del Nautilus, stupendi, a saltare su quelle basi anni ’90, mitici, catapultato letteralmente in ricordi di scuole medie, di apparecchi per i denti, di giornalini scolastici, di prime cotte e pensavo quanto appunto sapessero di quelli anni, di nokia 3310, di accendini ai concerti, di mucca pazza…
"Viaggia insieme e me io ti guiderò, e tutto ciò che so te lo insegnerò, finchè arriverà, il giorno in cui, tu riuscirai a fare a meno di me"
Sapevano anche loro, che prima o poi, quel giorno sarebbe arrivato.

Monet e gli impressionisti sono stati fra i primi a dipingere nelle loro opere i treni, se ne stavano sullo sfondo dei loro paesaggi, molte volte, senza far troppo rumore. Veniva dipinto il loro carattere romantico. Era come se li menzionassero, i treni, nelle loro opere, li dipingevano perché avevano intuito la novità, la genialità forse, di quella incredibile invenzione. Correva anche allora la vita, ma più piano, e anche il mondo, da quel momento visto da un finestrino, sfuocato, su quei treni, veloci, e quelle prime locomotive partite a rigare il mondo e a sfrecciare verso un futuro che erano destinate a cambiare per sempre, e gli impressionisti, lo sapevano, senza che sapessero probabilmente come. Diverso invece, era l’approccio futurista. Alla società tutta, ma se ne potrebbe scrivere per chilometri, quindi rimaniamo ai treni. Essi ne sottolineavano l’aspetto meccanico, materico, legato alla velocità, alla frenesia che c’era nel primo novecento. Dovevano in qualche modo rappresentare artisticamente il loro fermento, la velocità alla quale il mondo stavo andando, in ogni direzione, non più visto dal treno, ma sul treno forse, e la difficoltà che aveva l’uomo a starvi dietro.  

                                          Pioggia, vapore e velocità - W. Turner - 1844
                                          Dinamismo di un treno - Luigi Russolo - 1912

Ok, smetto di stronzeggiare e provo ad arrivare al punto.
Tutti noi, io credo, abbiamo un estremo bisogno di essere contemporanei. Da sempre. E’ sempre stato così, e sempre lo sarà.
Abbiamo bisogno di sentirci nel posto giusto, nel momento giusto, nell’età giusta, nel tempo giusto. Di sentirci a ritmo. Di sentire che il mondo vada alla nostra velocità, o noi a quella del mondo. Ma più di ogni altra cosa, io credo, abbiamo un terribile bisogno di avere e riconoscere una testimonianza del nostro passaggio, della nostra vita su questa terra, che sia tramandata, che sia cantata, suonata, scritta, scolpita, disegnata, costruita, sputata, recitata, filmata, cucinata, sognata, o anche solo sussurrata, non importa, è sufficiente che ci sia e che venga ricordata, da tutti, ma soprattutto da noi che l’abbiamo vissuta. Di sapere di esserci stati e di identificarci in un tempo storico ben preciso, che per funzionare veramente, non può che essere quello in cui viviamo. E per fare ciò, lo dobbiamo vivere nel modo giusto, perché c’è un tempo per qualsiasi età, e la contemporaneità, corre ad una velocità precisa, e per sentirci parte di essa non si deve andare ne troppo veloci ne troppo lenti. E’ un equilibrio sottile, che molte volte si rompe, senza che ci si accorga. E’ un equilibrio che impone di vivere a pieno la propria età, di accettarla con il proprio pacchetto di vantaggi e svantaggi purchè la si viva nel modo giusto.
La verità è che gli anni passano senza che nemmeno ci si renda conto, corrono, i giorni, uno dopo l’altro, maratoneti inarrestabili, e di colpo, ti alzi un mattino e ti accorgi che gli eiffel 65 non li passano più alla radio, che la sigaretta fumata la sera prima non aveva per nulla il sapore della prima a sedici anni, ti accorgi a volte, di essere scaduto, come un cibo tenuto per troppo tempo in frigorifero, e per quanto tu ti opponga, vieni trascinato in quel fiume impetuoso e variegato che è il mondo, spinto da correnti di contemporaneità, e se non sai nuotare bene, vieni trascinato senza goderti nulla del tempo in cui vivi. E basta un soffio perché sia troppo tardi. Badate bene, non è questione di seguire la moda, affatto, è questione di vivere a pieno, e non è per nulla facile scegliere luoghi, persone, artisti, film, dischi, fotografie, quadri che rappresentino in maniera appropriata il senso esatto del tempo, e poi ancora, legarli all’età adeguata, e quindi scegliere ancora persone, attimi, esperienze, idee, sogni. Ci si confonde molto spesso, non c'è una logica matematica. E’ sfiancante.
Ci aggrappiamo a quello che il tempo in cui viviamo fa nascere, è inevitabile, e in fin dei conti penso che sia giusto così. E non si può far nulla per cambiare le cose se non crogiolarsi in una nostalgia carogna che ogni tanto fa scendere una lacrima di ricordi nei quali però, non si può vivere, ma è un attimo annegarci. Bisogna stare attenti.
E forse, in ultima analisi, forse, e dico forse, questo è il vero motivo per cui amiamo l’arte, per cui talvolta non la capiamo e per cui non riusciamo a farne a meno. L’arte, di qualunque genera sia, è il modo che abbiamo tutti noi per imprimere nella storia il nostro passaggio, il nostro vivere e il nostro aspirare.
Forse perché in definitiva, la paura più grande che abbiamo, è solo quella di essere dimenticati.


p.s. 1_Chiedo scusa per aver riassunto a mo’ di bigino fatto male un secolo di arte parlando di impressionismo e futurismo.

p.s 2_ Questi sono i veri !!!

p.s 3_ Devo ancora decidere se quello che ho scritto abbia davvero un senso. Sono orientato sul no, per ora.  Se qualcuno ci ha capito qualcosa mi faccia un fischio, e provi a spiegarmelo.
Nel frattempo, fatemi il piacere di alzare il volume e guardarvi questa scena. Qui è condensato tutto quello che ho provato a scrivere, nonché il motivo per cui la mia, è la teoria di Johnny B. Goode:

giovedì 16 maggio 2013

4.52 a.m.


Pochi temporali fa.
Verso la fine.

La sveglia cadde, dal comodino, provocando nella stanza un rumore sordo, netto, rotto.
Ruppe la notte, che rimase spaccata, divisa a metà. Non suonò, che mancavano ancora tre ore.
Cadde, non suonò.
Svegliato, per così dire, smisi di dormire, e forse, la sveglia, non era suonata, ma era caduta, per non far troppo rumore, per concedermi una pausa dal sonno, che come ogni notte, non stava portando a nulla di buono. Pieno di vuoto, come sempre, quel sonno.
Aprì la finestra, con gli occhi chiusi, e la vista, addormentata, lasciò agli altri sensi l’onere di constatare, senza riserve, che stava piovendo. Si sentiva, si annusava, si toccava.
Mi si conceda di dire che la pioggia pioveva.
Pioveva in maniera rimessa, curata.
Pioveva un soffio.
Piano.
Sussurrava.
Quel tanto che bastava però per sentirla dal letto, sdraiato, a sufficienza da bagnare i pensieri, da cullare le angosce, e le paure, senza svegliarle, almeno loro, almeno per un po'.
Si poteva dire, senza correre il rischio di affermare il falso, che la pioggia, in quei giorni, era educata e gentile. Anche lei. Troppo gentile. Ma imperterrita.
Imperterrito piove, la pioggia.
Leggera, ma con una sua dignità. Continua. Cadeva, la pioggia, non suonava, come le sveglie.
E non smetteva di lavarli, i pensieri, che alla fine sembravano più lindi, smacchiati, e più chiari.
Aveva avuto il coraggio, la pioggia, quella notte, davanti alla sveglia, di prendersi la colpa della mia insonnia, coprendo la vera colpevole, che forse, quella pioggia, anche lei la stava sentendo sfogarsi, con calma, quella notte.
Sommessamente.
Entrambe.
I pensieri erano ora più sottili, spogli, nudi, ma l'acqua non basta, a sciacquarli del tutto, e bisogna fare piano, non c’è da suonare, che le paure per un po' sono assopite, ma bisogna fare piano, è un attimo che si destino, e se lo fanno ora, che è ancora notte, farebbero male, per davvero.
Che però, vorrei essere anche io come la pioggia, ma meno educato.
Suonerei, io, se fossi pioggia, se fossi sveglia, se fossi sveglio.
Che se capita di vederla, perderei qualche goccia, dalle mie mani, e scivolerebbero, come carezze, a rigarle le guance, lacrime di nulla, per poi scomparire, infine, tra le sue labbra semichiuse.
Il loro, delle gocce, stupendo destino.
Che se la trovassi, sarei uno scroscio di momenti felici, sarei una tempesta, di attimi senza fiato, suonerei, e non cadrei, e sarebbe lei, allora, educata, e gentile.
Io pioverei forte.
Io sarei intenso, e magari anche a lei, laverei i pensieri, che forse, sarebbero più chiari.
Che magari pur i suoi sono ostaggi, delle subdole angosce, destate le sue, dal rumore che fa la pioggia nel temporale, dal rumore che farei io, suonando, cadendo, piovendo, bussando, amando, che non so entrare nelle vite in punta di piedi, io.
E magari, alla fine, si innamorerebbe pure lei, della pioggia, e potremmo a quel punto ascoltarla in un letto, insieme, e laverebbe le scorie, di una passione consunta, e rimarremo così, stropicciati, intricati, affamati, e non la pioggia poi, ma il tempo, rapirebbe i sospiri, e gli sguardi, e le parole, e le promesse, e quei sorsi di felicità a noi concessi; il tempo, che sono sicuro, scorrere troppo veloce, a far suonare altre sveglie, non sommesso né  gentile, lui sì, maleducato.
E in questo mercato di desideri invisibili, mi trovai a dover conoscere, senza che l’avessi chiesto, la crudeltà dell’evidenza, gocce di tempo e di carezze, imprigionate, invendute, destinate forse, a non esplodere mai. Destinate a non piovere mai.
E infine la pioggia, seppur tranquilla, piovve le gocce che spensero il fuoco, divoratore di sogni, che svuotò la notte dal vuoto di cui era fatta e di quei pensieri, ormai bruciati, e arditi, fin troppo, non rimase che cenere.
Sotto la pioggia.
Sempre imperterrita, ed elegante.

giovedì 9 maggio 2013

Il Tandem della Bovisa



Suona la sveglia alle 8, e subito penso che, fino all’anno scorso, a quest’ora, ero in treno già da un quarto d’ora buono, quand’era puntuale. Ma ora, me la prendo comoda, che di orari, e lezioni e impegni non ne ho poi molti. Ho tempo anche di fare colazione, la prima, delle dieci che farò stamattina. Una a casa, due al bar da me, e poi anche dopo, roba che a pranzo arrivo che non ho nemmeno fame. Prendo il treno alle nove, quello che quando lo prendevo l’anno scorso mi sentivo già in ritardo. Che facendo così, arrivo in stazione a bovisa che son già le dieci e mezza, non propriamente all’alba diciamo. Si aprono le porte della stazione e di fronte c’è un bivio, umano, arcigno, letale. Andando a destra, capita di imbattersi nella facoltà di ingegneria, che, se fiutano per sbaglio che fai architettura, potresti venire legato in qualche laboratorio sotterraneo e torturato da qualche omino rachitico che, dopo averti messo una camicia di forza e averti scocciato le palpebre per obbligarti a guardare a mo’ di arancia meccanica ti propinerebbe teoremi lunghi da qui a Bologna, teorie del caos, e regole della mano destra, spiegate con la mano sinistra, per confonderti. Un incubo.

Andando invece a sinistra, oltrepassata la piazza, o il parcheggio, si arriva nel cuore pulsante della bovisa. Ed è tutto un fermento, gente che salta, capicolla, strabuzza. Allegria contagiosa per le strade, studenti che corrono a stampare, ragazze sciatte che hanno fatto la notte su autocad, ragazze, truccatissime, che forse la notte non l’han fatta proprio su autocad. Dscorsi distesi, battute. Personaggi strani, da libri, da film, da fantasia.
Un saluto veloce al copying , dove per anni ho stampato qualsiasi tavola abbia pensato, C’è una stampante ormai, collegata alla mia testa, non gli do nemmeno più la chiavetta. Luogo che, nel periodo delle consegne faresti prima a metterci una brandina dentro e stare lì e il loro numero di telefono lo componi schiacciando due volte il verde sul cellulare. Fidi scudieri di mille battaglie.
Che si, è vero, son già le dieci e mezza, ma un cappuccio al bluespot devi prenderlo per forza. Lo si incontra sulla destra, il bluespot, da fuori è una festa, per le orecchie, con quel blues, sempre alto, che ti abbraccia le mattine, ti scalda la pancia, che come un lazo ti acchiappa, dal marciapiede, e ti trascina dentro, mentre di corsa improvvisi uno slalom gigante, tra studenti e motorini. Un bancone, i muri blu, pochi tavoli, e Germano, che dispensa allegria e buon umore, anche nelle mattine che pensi sia impossibile trovarlo da qualsiasi parte. Il quantitativo di caffè che ordini è direttamente proporzionale al grado di difficoltà della notte appena trascorsa. Il giorno del’esame di meccanica ne ordinerò un bidet, di caffè. E le mattine in cui va tutto storto, ordini il tandem della bovisa, la brioches mezza panna e mezza cioccolato, creata appositamente per fanculizzare i problemi. Un antidoto alle rotture di palle. Gliel’ho detto ad una ragazza, una volta, sei bella come un tandem della bovisa. Non ha capito che era un complimento, rimase un po’ basita, perplessa, come darle torto. 
All’ingresso dell’università un cordone umano di gente che ti propina inviti per feste, palestre, rave, ristoranti, mostre, matrimoni, lezioni, conferenze, biblioteche, aperitivi, eventi, o un invito a casa loro, semplicemente. E poi loro, che urlano: “lotta comunista”, “la lotta”, “un euro per la lotta”, magari costasse solo un euro, la lotta.

Vediamo dove fa lezione il professore che cerco, ma non ho voglia di leggerlo in quell’elenco infinito appeso al vetro, Mimmo tu sai in che aula?!. Ovviamente si. Prima faccio un salto in biblioteca, passo davanti alla Rossa, che se c’è qualcuno dei miei, sicuro è seduto lì fuori. Belli i tempi in cui di tavoli ne dovevamo unire almeno due. Ho un libro in ritardo, di settimane ormai, entro in biblioteca, ci sarà la locandina con la mia faccia e sopra la scritta Wanted, vivo o morto, ma con il libro. Se c’è la Sarda mi fa una menata che non finisce più.
Che sia arrivato il tempo di andarsene è certo. Poche facce conosciute, gente giovane. Ragazze che potrebbero essere figlie mie. Non esageriamo. Poi io che mi faccio sti problemi, che ve lo dico a fare. In giro, ogni tanto, eminenze grigie, il preside che si aggira nei corridoi che mi ricorda Bob Kelso. Chi ha due pollici e se ne frega? Ang……..
Ogni tanto incontro qualche ritardato, pardon, ritardatario, come me. Anche lui al terzo anno più iva. Come va? Cosa ti manca? a te anche mate? Si jack a proposito, quest’equazione cosa ti da? Secondo me una parabola, dico io. Ah si giusto, grande Jack, grande, una parobola…aspetta però, la parbola è quella a forma di culo giusto?

Finisco la lezione che mi interessava, alla quale sono arrivato già alla pausa, col caffè in mano. E il docente, che promette, ma non ci crede nemmeno lui, un’ora di pausa pranzo e poi sono qui. Se dicono così solitamente si rivedono verso il tramonto, sbadigliando. Andrò a mangiare.
A pranzo, la bovisa, da il meglio di se. Via Durando e la parallela come il mercato di Marrakech, ci trovi ogni ben di dio. Un multietnico casino in cui puoi trovare di tutto, ogni genere di leccornia. Dai primi del 125, salve cosa avete oggi? Lasagne, pizzoccheri, polenta e stufato.. grandi, avete anche qualcosa se uno nel pomeriggio vuole continuare a vivere?, al Charlie Brown, il kebabbaro più buono del mondo, che ci aspettava con ansia ogni martedì a pranzo, abitudinari, che gli brillavano gli occhi appena ci palesavamo sulla porta. E scopri che la bovisa ormai è un po’ casa tua quando inizi a chiamarlo per nome, il kebabbaro, e sa già cosa prendi. Ciao Charlie oggi kebab senza… ti interrompe e finisce lui, senza pomodori, tanto piccante, patatine e ketchup. Arrivano. Che figata. Che mica lo so se si chiama Charlie, ma chiamarlo Brown suonava un po’ razzista. Ogni giorno apre un negozio etnico nuovo. Chissà com’è il persiano nuovo che non ho mai provato, un giorni ci entrerò. Bounjour je m’apelle Ponchia… secondo me è speziato, non cattivo, speziato. Male che vada ci si butta in piadineria, che magari ci scappa una partita di calcetto mentre aspettiamo che si sciolga lo squacquerone. O si va dalle unte, panetteria dove fanno pizze, focacce e quant’altro. Che solo a pensarci, pure i ricordi sono cosparsi d’olio, e ti scivolano dalle mani. Unti, tanto. Tutti.

Prendi take away che ci buttiamo sul prato a mangiare e ad osservare la gente,  che se la studi un po’ capisci subito che facoltà fanno. Quella fa design della moda, e ce l’ha solo lei, quello architettura c’ha gli occhiali da Le Corbusier. E poi, si scorgono, le frotte di ingegneri, che accorrono, a primavera, la stagione delle scollature e delle gambe lisce, come orsi attirati dal miele. Affamati di cibo, e di gnocca, scommetto più di gnocca, comprensibilmente. Arrivano in gruppo, sei, otto, quindici, solo uomini. Che sembrano stiano andando a fare l’apericena in spiaggia a Milano Marittima da tanto sono carichi, salvo poi avvicinarti e scoprire che parlano di integrali. Caffè alla rossa, “CIAO DIMMI?!” e magari anche un magnum alle mandorle, si ma ci sediamo fuori.
Non c’è nemmeno posto, ma la voglia di sedermi è così grande che andrei al protoshop  e comprare un paio di chili di alveolare per fare una poltroncina. Anche perché se mi siedo sul prato va a finire che dormo e c’è da far meccanica oggi, o almeno ci si prova. La concentrazione latita e si sa che, in meccanica, per farla bene, non ti puoi perdere nemmeno un ”momento” .

Arriva la sera, e con lei, ad accompagnarla, il degregoriano sole sui tetti dei palazzi in costruzione. Chiude tardi la bovisa, ma non ne rimane tanta gente. Come un meraviglioso teatro, che ogni mattina riapre, con gli stessi attori. O meglio, tu vedi sempre quelli, perché la bovisa è magica, su cinquemila persone cascasse il mondo, incontri in giro sempre le solite cinquanta. C’è una ragazza che per un anno incontravo a prender il caffè alla macchinette, ogni volta, sempre lei, a qualsiasi ora o macchinetta. E ci si sorride, perché si pensa, ma dai ma ancora tu?! Cala il sipario, e rimane Mimmo a tirar su i pop corn che son caduti per terra. Qualche attore che esce dal camerino, stanco, provato, sudato, che la giornata è finita, ma la notte ancora deve cominciare, noi della bovisa lo sappiamo bene. Tubi di tavole in spalla e modellini, accrocchiati, precari, che hanno già paura di non sopravvivere al viaggio in treno, i modellini. Io dalla mia, al massimo mi concedo uno spritz ancora, e poi si va via. A correre per prendere il passante, che devi correre per forza, al passante, se no le scale con la pedata dieci volte più lunga dell’alzata cosa l’hanno fatta a fare?!. E mi ricordo, che lo spettacolo finiva sempre così, Rogoredo Domodossola e arrivo che è già buio, distrutto, ma contento. Arrivo che già ci ripenso. Come cresci bovisa, e come cambi, a vista d’occhio, ma certe cose non cambiano, non mutano, rimangono uguali, almeno per me. C’è da dire che mi mancherai davvero… cara bovisa…

giovedì 2 maggio 2013

Meno trenta


C’è stato un tempo in cui avevo smesso. Avevo smesso di ascoltare la musica in macchina, troppa fretta forse, non avevo tempo di attaccare l’ipod o forse non avevo voglia di divertirmi, magari di sognare un po’, fermo al semaforo. Proprio in quel periodo poi, che i semafori erano tutti rossi. Non so perché lo facessi, non ascoltare la musica intendo, l’avevo sempre fatto. Ora non riesco proprio a capire come si possa nella vita non ascoltarla. Ora, che la ascolto ogni secondo della giornata, come sottofondo, ad enfatizzare momenti, a condire attimi, ad accarezzare istanti. La lascio scivolare sulle frasi che dico e sulle cose che faccio. Ora, che non capisco chi non la ascolta, proprio non ci riesco. Come quelli che mangiano l’insalata senza il condimento, se non metti olio e aceto sa solo di erba. Vivere senza musica sa solo di erba.

La amo, la musica, di qualsiasi genere, basta che sia alta. E’ difficile davvero menzionare tutta quella che ascolto. Ci provo. Vado dal punk informale impreciso e sgangherato dei Ramones e dei Clash, al blues di BB King che profuma di campi di cotone. dall’elettronica dei Chemical Brothers, M83, e Skrillex (qualche buon’anima poi un giorno mi spiegherà la differenza tra dubstep e drumnbass o come diavolo si scrive) alle poesie di De Andrè, Dalla, De Gregori e Guccini. Ascolto Il rock in ogni sua sfaccettatura dall’hard rock degli Acdc al rock-pop californiano dei Beach boys, e poi ancora dalla dance di Tiesto all’indie contemporaneo degli Zen Circus, Lumineers e Imagine Dragons, passando per il post-punk di Gaslight Anthem e Green Day, dal rap divertente e incazzato di Eminem (che mi ricorda i primi anni di liceo e una nintendo gamecube…) al reggae rilassante e sempre giovane di Bob Marley (che mi ricorda una opel zafira sporca). Adoro le musiche oniriche dei Pink Floyd, e la malinconia errante di Manu Chao. Tra Beatles e Rolling Stones, sono decisamente un tipo da Rolling Stones, ma ascolto anche i Beatles. I koln Koncert di Keith Jarrett hanno il potere di scacciare via ogni mia paura. Mi diverte da morire la musica latina, meglio se cubana. Certa musica mi ricorda periodi della mia vita, altri attimi precisi, luoghi, persone. Ma nonostante ci sia la musica giusta per ogni momento, delle volte proprio non so cosa ascoltare. A volte vorrei avere dieci cuffie e altrettante orecchie, anzi no, il doppio… se no... 

Tuttavia, in questi momenti di terrore, non dispero, la scelta è sempre una. Mi butto sul meglio, ascolto il più bravo, ascolto chi ha già detto tutto quello che c’era da dire. Ascolto Bruce Springsteen. 
Non è stato facile scegliere il suo miglior album, il mio preferito. Dico solo che ha diviso la finale con The River e Nebraska, ma il vincitore è The Darkness on the edge of town. Non so perché, o forse si. Credo perché è stato il disco che da almeno cinque anni a questa parte mi ha accompagnato, in gioie e dolori, nei momenti belli e in quelli brutti, come un amico fedele. E’ il disco che metto quando non so dove sbattere la testa e allo stesso modo quando niente potrebbe andare meglio. Questo perché al suo interno, convivono tutte le sensazioni e i sentimenti che provo. Dentro ci trovo di tutto.

C’è lo sconforto di quando le cose vanno male, di quando sei esausto e hai bisogno di un momento per staccare, e l’unica cosa che ti senti di fare è scappare lontano, cercando qualcosa nella notte, sperando che nessuno ti segua, soprattutto le sfortune, o che si perdano via e ti lascino stare. Turn the radio up loud / so I don’t have to think / I take her to the floor / looking for a moment when the world / seems right / And I tear into the guts / of something in the night. (Something in the night)

C’è l’eterna lotta fra generazioni, fra genitori e figli, che ti assale durante l’adolescenza e porta i suoi strascichi per un po’ anche dopo. La voglia di cambiare una condizione sociale ereditata e la speranza di riuscire a diventare chi si vuole, anche se poi, alla fine, Caino quanto vuoi, ma alla fine non puoi non amarli.
All of the old faces / ask you why you’re back/ They fit you with position / and the keys to your daddy’s Cadillac / In the darkness of your room / your mother calls you by your true name / You remember the faces, the places, the names / You know it’s never over it’s relentless as the rain / Adam raised a Cain (Adam raised a Cain).

C’è la consapevolezza di quando ti svegli e capisci che sono tutte stronzate, che ti hanno preso in giro, che tu non te lo meriti, che decidi di andare avanti e di smetterla di soffrire, anche se la notte è buia, per fortuna che le strade, sono di fuoco.
I’m wandering, a loser down these tracks / I’m dying, but girl I can’t go back / ‘Cause in the darkness I hear somebody call my name / And when you realize how they tricked you this time / And it’s all lies but I’m strung out on the wire / In these streets of fire 
(Streets of fire)

C’è il bisogno di saltare e scatenarsi, quando ti travolge l’euforia e la speranza. Quando decidi che devi buttarti, rischiare, pur sapendo di fallire, perché chi viaggia nella notte non ha tempo per aspettare. Quella forza che arriva, e quella voglia di prendere la tristezze a calci nel culo.
You wake up in the night / with a fear so real / spend your life waiting /for a moment that just don’t come / well, don’t waste your time waiting (Badlands)

C’è il passato che bussa, ad ognuno, nell’oscurità ai margini della città. Ma alla fine, c’è sempre tempo per salire in cima alla collina dove i sogni vengono trovati e si perdono, a pagare il prezzo.
Tonight I’ll be on that hill `cause I can’t stop/ I’ll be on that hill with everything I got/ Lives on the line where/ dreams are found and lost/ I’ll be there on time and I’ll pay the cost/ For wanting things that can only be found/ In the darkness on the edge of town. (darkness on the edge of town)

C’è l’amore malinconico, conquistato andando veloce, che forse non era quella giusto, che forse andando così forte, come su una camaro, si è consumato troppo in fretta ed è svanito.
I met her on the strip three years ago / in a Camaro with this dude from L.A. / I blew that Camaro off my back/ and drove that little girl away /  but now there’s wrinkles around my baby’s eyes. (Racing in the street)
 E poi invece, c’è quello passionale e folle. Quello per cui staresti tutta la sera a vederla con un vestito blu, a provarlo tutta la notte, perché è adesso il tempo per essere felici. E i tuoi sogni, diventano realtà, per un volta, per davvero. 
Everybody’s got a hunger, a hunger they can’t resist / There’s so much that you want, you deserve much more than this / But if dreams came true, oh, wouldn’t that be nice / But this ain’t no dream we’re living through tonight. (prove it all night)

C’è la voglia, eterna ed intramontabile, di sognare, dell’uomo che non ha nulla, che lavora in fabbrica da mattina a sera e l’unico suo svago è dato da una macchina che corre veloce, non abbastanza però da portarlo via, lontano, in quella terra promessa che ho imparato non essere sempre un luogo, ma forse a volte, una condizione mentale. Quella voglia di non fermarsi, mai e poi mai, di continuare ad inseguire qualcosa che arriverà solo con fatica, chilometro dopo chilometro, centimetro dopo centimetro. Una terra promessa, che, non puoi davvero non sognare quando hai vent’anni. Non si può dire di essere giovani se non la si è sognata con tutte le forze, almeno per una volta.
Driving all night chasing some mirage / Pretty soon little girl I’m gonna take charge (...)
Mister I ain’t a boy, no I’m a man/ And I believe in a promised land. (promised land)

In definitiva, vi ho raccontato tutto questo, perché oggi è un giorno speciale. Oggi manca un mese al mio secondo concerto del boss, tappa divenuta fondamentale per me, per tirare le somme, per ricordarmi di tutto quello che ho scritto sopra. Lo vedrò con uno spirito diverso dall’anno scorso, già lo so, la vita passa e le cose cambiano., soprattutto per chi corre in strada nella notte. Manca un mese, ma io sono già lì fuori dai cancelli.
E' iniziato il countdown. Meno trenta.

http://www.youtube.com/watch?v=JSplw1_ujwA