Suona la sveglia alle 8, e subito penso che, fino all’anno
scorso, a quest’ora, ero in treno già da un quarto d’ora buono, quand’era
puntuale. Ma ora, me la prendo comoda, che di orari, e lezioni e impegni non
ne ho poi molti. Ho tempo anche di fare colazione, la prima, delle dieci che
farò stamattina. Una a casa, due al bar da me, e poi anche dopo, roba che a
pranzo arrivo che non ho nemmeno fame. Prendo il treno alle nove, quello che
quando lo prendevo l’anno scorso mi sentivo già in ritardo. Che facendo così,
arrivo in stazione a bovisa che son già le dieci e mezza, non propriamente all’alba
diciamo. Si aprono le porte della stazione e di fronte c’è un bivio, umano, arcigno,
letale. Andando a destra, capita di imbattersi nella facoltà di ingegneria,
che, se fiutano per sbaglio che fai architettura, potresti venire legato in
qualche laboratorio sotterraneo e torturato da qualche omino rachitico che,
dopo averti messo una camicia di forza e averti scocciato le palpebre per
obbligarti a guardare a mo’ di arancia meccanica ti propinerebbe teoremi lunghi
da qui a Bologna, teorie del caos, e regole della mano destra, spiegate con la
mano sinistra, per confonderti. Un incubo.
Andando
invece a sinistra, oltrepassata la piazza, o il parcheggio, si arriva nel cuore
pulsante della bovisa. Ed è tutto un fermento, gente che salta, capicolla,
strabuzza. Allegria contagiosa per le strade, studenti che corrono a stampare,
ragazze sciatte che hanno fatto la notte su autocad, ragazze, truccatissime,
che forse la notte non l’han fatta proprio su autocad. Dscorsi distesi,
battute. Personaggi strani, da libri, da film, da fantasia.
Un saluto
veloce al copying , dove per anni ho stampato qualsiasi tavola abbia pensato, C’è
una stampante ormai, collegata alla mia testa, non gli do nemmeno più la
chiavetta. Luogo che, nel periodo delle consegne faresti prima a metterci una
brandina dentro e stare lì e il loro numero di telefono lo componi schiacciando
due volte il verde sul cellulare. Fidi scudieri di mille battaglie.
Che si, è
vero, son già le dieci e mezza, ma un cappuccio al bluespot devi prenderlo per
forza. Lo si incontra sulla destra, il bluespot, da fuori è una festa, per le
orecchie, con quel blues, sempre alto, che ti abbraccia le mattine, ti scalda
la pancia, che come un lazo ti acchiappa, dal marciapiede, e ti trascina
dentro, mentre di corsa improvvisi uno slalom gigante, tra studenti e motorini.
Un bancone, i muri blu, pochi tavoli, e Germano, che dispensa allegria e buon
umore, anche nelle mattine che pensi sia impossibile trovarlo da qualsiasi
parte. Il quantitativo di caffè che ordini è direttamente proporzionale al
grado di difficoltà della notte appena trascorsa. Il giorno del’esame di
meccanica ne ordinerò un bidet, di caffè. E le mattine in cui va tutto storto,
ordini il tandem della bovisa, la brioches mezza panna e mezza cioccolato,
creata appositamente per fanculizzare i problemi. Un antidoto alle rotture di
palle. Gliel’ho detto ad una ragazza, una volta, sei bella come un tandem della
bovisa. Non ha capito che era un complimento, rimase un po’ basita, perplessa, come darle
torto.
All’ingresso dell’università un cordone umano di gente che
ti propina inviti per feste, palestre, rave, ristoranti, mostre, matrimoni,
lezioni, conferenze, biblioteche, aperitivi, eventi, o un invito a casa loro, semplicemente. E poi loro, che urlano: “lotta
comunista”, “la lotta”, “un euro per la lotta”, magari costasse solo un euro,
la lotta.
Vediamo dove fa lezione il professore che cerco, ma non
ho voglia di leggerlo in quell’elenco infinito appeso al vetro, Mimmo tu sai in
che aula?!. Ovviamente si. Prima faccio un salto in biblioteca, passo davanti
alla Rossa, che se c’è qualcuno dei miei, sicuro è seduto lì fuori. Belli i
tempi in cui di tavoli ne dovevamo unire almeno due. Ho un libro in ritardo, di
settimane ormai, entro in biblioteca, ci sarà la locandina con la mia faccia e sopra
la scritta Wanted, vivo o morto, ma con il libro. Se c’è la Sarda mi fa una menata che non finisce più.
Che sia
arrivato il tempo di andarsene è certo. Poche facce conosciute, gente giovane.
Ragazze che potrebbero essere figlie mie. Non esageriamo. Poi io che mi faccio
sti problemi, che ve lo dico a fare. In giro, ogni tanto, eminenze grigie, il
preside che si aggira nei corridoi che mi ricorda Bob Kelso. Chi ha due pollici e se
ne frega? Ang……..
Ogni tanto incontro qualche ritardato, pardon, ritardatario,
come me. Anche lui al terzo anno più iva. Come va? Cosa ti manca? a te anche
mate? Si jack a proposito, quest’equazione cosa ti da? Secondo me una parabola,
dico io. Ah si giusto, grande Jack, grande, una parobola…aspetta però, la
parbola è quella a forma di culo giusto?
Finisco la
lezione che mi interessava, alla quale sono arrivato già alla pausa, col caffè
in mano. E il docente, che promette, ma non ci crede nemmeno lui, un’ora di
pausa pranzo e poi sono qui. Se dicono così solitamente si rivedono verso il
tramonto, sbadigliando. Andrò a mangiare.
A pranzo, la bovisa, da il meglio di se. Via Durando e la
parallela come il mercato di Marrakech, ci trovi ogni ben di dio. Un
multietnico casino in cui puoi trovare di tutto, ogni genere di leccornia. Dai
primi del 125, salve cosa avete oggi? Lasagne, pizzoccheri, polenta e stufato..
grandi, avete anche qualcosa se uno nel pomeriggio vuole continuare a vivere?,
al Charlie Brown, il kebabbaro più buono del mondo, che ci aspettava con ansia
ogni martedì a pranzo, abitudinari, che gli brillavano gli occhi appena ci
palesavamo sulla porta. E scopri che la bovisa ormai è un po’ casa tua quando
inizi a chiamarlo per nome, il kebabbaro, e sa già cosa prendi. Ciao Charlie
oggi kebab senza… ti interrompe e finisce lui, senza pomodori, tanto piccante,
patatine e ketchup. Arrivano. Che figata. Che mica lo so se si chiama Charlie,
ma chiamarlo Brown suonava un po’ razzista. Ogni giorno apre un negozio etnico
nuovo. Chissà com’è il persiano nuovo che non ho mai provato, un giorni ci
entrerò. Bounjour je m’apelle Ponchia… secondo me è speziato, non cattivo,
speziato. Male che vada ci si butta in piadineria, che magari ci scappa una
partita di calcetto mentre aspettiamo che si sciolga lo squacquerone. O si va
dalle unte, panetteria dove fanno pizze, focacce e quant’altro. Che solo a pensarci,
pure i ricordi sono cosparsi d’olio, e ti scivolano dalle mani. Unti, tanto.
Tutti.
Prendi take
away che ci buttiamo sul prato a mangiare e ad osservare la gente, che se la studi un po’ capisci subito che
facoltà fanno. Quella fa design della moda, e ce l’ha solo lei, quello
architettura c’ha gli occhiali da Le Corbusier. E poi, si scorgono, le frotte
di ingegneri, che accorrono, a primavera, la stagione delle scollature e delle
gambe lisce, come orsi attirati dal miele. Affamati di cibo, e di gnocca,
scommetto più di gnocca, comprensibilmente. Arrivano in gruppo, sei, otto,
quindici, solo uomini. Che sembrano stiano andando a fare l’apericena in
spiaggia a Milano Marittima da tanto sono carichi, salvo poi avvicinarti e
scoprire che parlano di integrali. Caffè alla rossa, “CIAO DIMMI?!” e magari
anche un magnum alle mandorle, si ma ci sediamo fuori.
Non c’è
nemmeno posto, ma la voglia di sedermi è così grande che andrei al protoshop e comprare un paio di chili di alveolare per
fare una poltroncina. Anche perché se mi siedo sul prato va a finire che dormo
e c’è da far meccanica oggi, o almeno ci si prova. La concentrazione latita e
si sa che, in meccanica, per farla bene, non ti puoi perdere nemmeno un
”momento” .
Arriva la sera, e con lei, ad accompagnarla, il degregoriano
sole sui tetti dei palazzi in costruzione. Chiude tardi la bovisa, ma non ne
rimane tanta gente. Come un meraviglioso teatro, che ogni mattina riapre, con
gli stessi attori. O meglio, tu vedi sempre quelli, perché la bovisa è magica,
su cinquemila persone cascasse il mondo, incontri in giro sempre le solite
cinquanta. C’è una ragazza che per un anno incontravo a prender il caffè alla
macchinette, ogni volta, sempre lei, a qualsiasi ora o macchinetta. E ci si
sorride, perché si pensa, ma dai ma ancora tu?! Cala il sipario, e rimane Mimmo
a tirar su i pop corn che son caduti per terra. Qualche attore che esce dal
camerino, stanco, provato, sudato, che la giornata è finita, ma la notte ancora
deve cominciare, noi della bovisa lo sappiamo bene. Tubi di tavole in spalla e
modellini, accrocchiati, precari, che hanno già paura di non sopravvivere al viaggio in treno, i modellini. Io dalla mia, al massimo mi concedo uno spritz
ancora, e poi si va via. A correre per prendere il passante, che devi correre per
forza, al passante, se no le scale con la pedata dieci volte più lunga
dell’alzata cosa l’hanno fatta a fare?!. E mi ricordo, che lo spettacolo finiva
sempre così, Rogoredo Domodossola e arrivo che è già buio, distrutto, ma
contento. Arrivo che già ci ripenso. Come cresci bovisa, e come cambi, a vista
d’occhio, ma certe cose non cambiano, non mutano, rimangono uguali, almeno per
me. C’è da dire che mi mancherai davvero… cara bovisa…