domenica 16 novembre 2014

Un romantico a Milano (parte II)



a Milano, dopo una certa ora della notte, in giro ci sono solo poliziotti, artisti, delinquenti e puttane. 
Il difficile è sempre stato capire chi è chi.
Giorgio Faletti


La prima, fondamentale regola, per non pagare nei bar è farsi amica la barista. 
Questo vale sempre, in qualsiasi circostanza. La seconda è ordinare, possibilmente, sempre la stessa cosa. Paghi i primi due drink, il resto dopo, e, se possibile, ordini non alla stessa cameriera. Più ci sai fare, più le dieci birre che hai ordinato diventeranno magicamente meno. Quante ne hai prese ho perso il conto?.. solo  3 domani mi alzo presto. Sono le 4, quanto presto potrai mai essere? Il momento del conto è la parte più bella della notte: troppo tardi per ieri, troppo presto per domani. Lì è dove si ha il momento di lucidità, immensamente piccolo attimo in cui tutto è fastidiosamente chiaro. Trapassa e ferisce. Stelle come lame.

Corre la 90 per tutta la circonvallazione, la "circonvalla", per gli amici, io che amico non sono, trasportando pittoreschi personaggi che colorano le notti milanesi. Da una parte all’altra della città, questa 90 che gira intorno e passa ovunque, in mezzo strade e traverse, a penetrare verso il cuore della città che si sveglia per davvero quando dorme. L’alcatraz in una di quelle traverse, casa mia. Non casa come i bar di via Ampere, una casa al mare diciamo, ci si va solo per certe occasioni. Meravigliose occasioni. Ci festeggiai anche i 24 anni, vorrei raccontare qualcosa ma mi ricordo molto poco. 
I giorni prima mi regalai l’ultimo album degli Zen Circus, "Viva"  divenne l’inno ufficiale di casa mia, sembrava scritta apposta per la tana. Va da se che andai a sentirli all’alcatraz poche settimane dopo, alla prima occasione utile. Anzi, alla seconda, perché la prima fu a Bologna, giusto due settimane prima. Fu il concerto della svolta quello di Bologna. Concerto fenomenale, ballammo e saltammo ad ogni canzone, quelle canzoni che per i due anni prima avevo fatto passare in loop su qualsiasi dispositivo di riproduzione che mi capitasse davanti. A fine concerto Appino (il frontman, idolo vero) lanciò tra la folla il plettro con cui aveva suonato. Tra i fumi del palco e dell’acol vidi una scintilla davanti agli occhi, chinai il capo e vidi che il plettro era finito a mezzo metro dal mio piede. Lo agguantai al volo anticipando di un secondo la mano di una fanciulla. Ci alzammo insieme, ci pensai un istante, e glielo regalai. Avevo vinto alla lotteria, avevo preso il plettro del cantante degli Zen al loro primo concerto del tour e lo regalai alla prima sconosciuta che passava. Capì in quell’istante che la mia rovina sarebbero sempre state le donne.
Partii per Bologna due giorni dopo la consegna di progettazione, dopo nottate su tavole, modellini e caffè ogni quarto d’ora. Via vallazze di notte, tra puttane, studenti e macchine che corrono veloci. Notti senza dormire, si mescola il giorno alla notte, non esistono più le ore come le si conosce di solito, si parla solo di quante ore mancano all’esame. Il tempo non basta mai, come il caffè. Ci vorrebbe il tempo solubile, per fare prima. Alla facoltà di architettura i laboratori di progettazione ti insegnano per prima cosa a fare gli after. Al quarto anno, dopo nottate sveglio con autocad acceso fare after in discoteca diventa di una semplicità infantile. 
Quando tornai da Bologna scesi dal treno in centrale ed accadde una cosa strana: Milano sapeva di casa, per la prima volta. Perché è così che si fa, si parte e quando si torna lo capisci se torni a casa oppure no. Se non si parte e non si sta via, non lo si capisce mai dove è casa e dove non lo è. E uno non se la può raccontare su questa cosa, non c’è possibilità di fare diversamente. E’ la privazione di qualcosa che ci regala la consapevolezza della sua importanza. 
L’inverno stava per finire, all’orizzonte una nuova estate, nel mezzo altri concerti epici, e il fuorisalone, appuntamento irrinunciabile, le consegne, i progetti, le tavole, il MiAmi, che se Mi Ami vale tutto. 
E poi lo spettacolo al Carcano di Martina e quella finestra su un mondo composto esclusivamente di passione e di fatica, restituita ai nostri occhi sotto forma di movimenti  morbidi e lisci come sono gli ingranaggi perfetti di un sogno. La rappresentazione del caso, studiata nei minimi dettagli.
Passò l’estate e ritornai ad ottobre a Milano, correndo like a deejay, con l’ignoranza meravigliosa di chi mi sta intorno. Che quella in fondo, è l’unica cosa che ti fa sentire a casa sempre, ovunque ci si trovi.




Di casa mancano le cose più strane. Il lago alla domenica mattina. Le cicale di notte, in estate. Il pratone completamente vuoto, e il pratone completamente pieno. I giri in macchina senza meta.  Il vento, in barca. Il profumo della sera.
Di casa mancano le cose più strane. Il rumore dell’acqua sul mio sottotetto nelle mattine di novembre, le passeggiate in corso buenos aires dopo le sei di sera, il sostitutivo della metro e l’alba da lontano, molto lontano. Il duomo di notte. Il tram 23 con le sue panche in legno e le fermate a scandire la sbronza. Le meatball di Porta Genova, e quella bottiglia di vino che Abatantuono ci ha regalato (involontariamente mi sa). Le cialde nespresso a San Babila a dicembre. Los pollos hermanos, anche non si chiama così. I risotti improvvisati. L'odore della città.
Un anno nella tana, ultime settimane milanesi, e quel profumo che sa di libertà… come il caffè.