venerdì 28 giugno 2013

Storie Mai Vissute




Ci sono delle sere, talvolta, che mi domando come diavolo sia possibile che la mia vita sia fatta in un certo modo. 
In queste sere maledette, di solito, provo a pensare ad un qualsiasi avvenimento della mia vita, anche il più stupido o banale. Scavo nella memoria per vedere da cosa è partito, ricordo, collego, rifletto per scoprire poi, che ogni evento, è generato da una concatenazione di altri eventi molto spesso anche piccoli ed insignificanti quando sono successi, ma assolutamente necessari per arrivare al presente. Ogni volta, mi scontro con il fatto che non si riesce mai a trovare il vero inizio, non si trova mai quel qualcosa da cui tutto è scaturito, perché è nascosto da qualche parte nella notte dei tempi, dietro qualche angolo della memoria, in qualche antro dimenticato e fidatevi che non si farà mai trovare.
Mi ha da sempre affascinato pensare, che anche il più piccolo ed insignificante gesto possa essere un piccolo mattone di quello che la vita, il destino, il fato, il caso, abbiano in serbo.
E la cosa incredibile è che ogni azione che si compie nella vita, quindi, può potenzialmente essere una di quelle decisive per arrivare a ciò che si vuole.
Ovviamente, è quasi impossibile stabilire se il tale evento sia stato positivo o negativo, perché non si può sapere se sarebbe potuto avvenire qualcosa di migliore o di peggiore.
Ne consegue che, è assolutamente inutile rimpiangere le scelte passate.
Talvolta però, mi capita di pensare a cosa sarebbe successo se in alcuni casi avessi preso una strada diversa, o quelli intorno a me, avessero preso decisioni diverse.
Si scoprono storie incredibili:

In un’altra vita non ho superato il test di architettura e sono rimasto a spasso per qualche mese. Poi ho trovato lavoro in un locale fuori Varese, un piccolo ristorante, dove ho iniziato a lavare i piatti per sei euro all’ora, all’inizio si sa, ci si accontenta di poco. Poi un giorno successe che l’aiuto-cuoco si prese una potente influenza che lo costrinse a letto per un paio di settimane, i più maligni narrano che se lo prese perché se ne stava nudo in macchina a gennaio con la sua dolce metà, più invidiosi che maligni, dicevo io. Aiutai il capo-cuoco che rimase talmente colpito da me da licenziare lo sfortunato playboy malaticcio. Presi il suo posto. Lavorai lì per un altro anno e poi decisi di tentare la fortuna a Londra. Un ristorante italiano a Londra, ma si può essere più banali?. Invece funziona. Col tempo mi hanno raggiunto alcuni amici. La sera, finito il turno, ridiamo dei turisti che sono capitati quel giorno. Torniamo poco a casa, a chi abbiamo lasciato in Italia diciamo che è perché abbiamo tanto lavoro, ma anche se non ce lo ammettiamo, tutti noi sappiamo che è solo una scusa.

In un’altra vita mi trasferii da piccolo con i miei genitori in una casa sul mare. Iniziai a giocare a basket, ero piuttosto bravo. Dopo qualche anno mi presero in prima squadra, finchè un brutto infortunio al ginocchio non mi bloccò per quasi un anno. Rimasi tagliato fuori, lasciai la scuola e andai a lavorare nell’albergo dei miei. Appena posso vado a vederlo il basket, guardo i miei vecchi compagni che ce l’hanno fatta, e sono felice per loro. Delle volte li strangolerei dall’invidia. Mi piace alzarmi presto la mattina, e andare a guardare il mare quando ancora non c’è nessuno, potrei stare a guardarlo per ore, trovo tutte le risposte alle mie domande. Vivo alla giornata, e al futuro non ci penso mai, ho imparato che porta sfiga.

In un’altra vita sbagliai il treno di ritorno dal mare. Ero andato con i miei, ma decisi di tornare prima, dovevo tornare in tempo per il concerto degli U2. Sbagliai treno, appunto, e a Bologna, colpa dalla fretta presi quello per Firenze. Mi sedetti in un posto a caso quando una ragazza si avvicinò a me, intimandomi di alzarmi, sventolandomi in faccia il suo biglietto regolarmente acquistato tre settimane prima, quello era il suo posto. Mi alzai e chiesi scusa, un po’ indispettito dalla sua rabbia esagerata. Mi fece una scenata assurda. Ricordo che pensai subito che se si fosse tolta quel “vaffanculo” che aveva stampato in fronte sarebbe stata anche parecchio bella. Nel corso del viaggio, dopo che si calmò, parlammo, litigammo un po’, non eravamo d’accordo quasi su nulla a dirla tutta. Arrivammo a Firenze e ci scambiammo i numeri di telefono. Dopo dieci minuti mi telefonò, finì che gli U2 li ascoltai in camera sua, con lei tra le braccia, il mattino dopo. Da allora stiamo insieme. Dio se litighiamo, ma quando la guardo negli occhi capisco che ne vale sempre la pena.

E’ strano avere nostalgia di una vita mai vissuta, o di un’epoca mai vista, o di persone mai incontrate. Certo, queste sono solo storie, la vita vera, rimane comunque qui davanti, e con lei, qui davanti, ci sono infinite occasioni per far succedere qualcosa per trovare quello che si cerca, quello che si desidera, quello che si sogna. Ci si deve buttare, si deve rischiare, e si deve fare di tutto per raggiungerla, la felicità. Perché quello che succede domani potrebbe essere il primo, invisibile passo, verso qualcosa ancora sconosciuto, ma destinato ad essere, in futuro, ciò per cui si vive.
Viviamo in un intreccio infinito di gesti, promesse, segreti, desideri, un intreccio di vite che si mescolano ogni giorno regolate da qualcosa che siamo soliti chiamare, fato, destino, alcuni religione, altri semplicemente caso, coincidenze.
Ancora non so se credo nel destino o se credo che ognuno di noi sia artefice del proprio. Non mi sono ancora dato una risposta, so solo che, se per caso lassù dovesse esserci davvero qualcuno che muove i fili, si sta divertendo come un matto, lo stronzo…

Ad ogni modo, ora sono qui. La felicità, certe volte l’ho raggiunta, altre volte mi è sfuggita di mano, altre ancora l’ho solo immaginata in quelle storie mai avvenute, in quelle persone mai conosciute.
In questo momento, mi sembra di essere sopra un tavolo, con sopra una sedia, e sopra ancora una scala, è tutto in bilico e traballante, ma posso toccare la felicità con un dito, la sfioro.
Resta solo da fare un piccolo salto, ma se cado, stavolta un po’ male mi faccio.
Gli esami settimana prossima, che se li passo, saranno l'ultimo avamposto superato per arrivare alla laurea tanto agognata; un'estate e una Spagna da raggiungere, ancora una volta, come tempo fa, sempre a cercare risposte, su quelle strade...
L’anno prossimo, i miei progetti, i miei sogni, altre storie destinate alcune a nascere, altre ad essere abortite.

A volte è bello pensare alle parole non dette, agli attimi non vissuti, alle persone non conosciute, ma delle volte invece, lascia un po’ quel senso di amarezza, come di storie chiuse prima che potessero riuscire a sorprendere, come di lettere scritte, ma mai consegnate, rimaste chiuse ed impacchettate in qualche cassetto, destinate a non essere lette mai…



sabato 22 giugno 2013

Dialogo tra un ragazzo sconosciuto ed un viaggiatore errante...(parte II)


Viaggiatore: “Da lontano, quasi non ti riconoscevo.”
Ragazzo: “Bè, lo prendo come un complimento.”
V: “lo è infatti.”
R: “Eppure lo sai che c’è qualcosa, altrimenti ora non saresti qui.”
V: “Hai fatto quello che ti avevo detto?”
R: “Ho fatto anche di più, con il tempo. Ho capito che è stato decisamente meglio così, e che io, in quel mondo, non ci voglio entrare più.”
V: “Allora…”
R: ”Allora, ogni tanto, la malinconia arriva, leggera come una brezza, ma devastante come un uragano. Colpisce, in quei rari momenti in cui si è vulnerabili!”
V: “L’importante lo sai, è che ora tu abbia chiuso. Hai messo la parola fine. E questa, è l’unica cosa che conta.”
R: “Mi sono ritrovato a ripensare agli ultimi mesi, ho riletto mail, ho ascoltato canzoni che ascoltavo prima. Ho esorcizzato luoghi. Ho riguardato tutto quello che ho fatto… tutto quello che ho concluso, tutto quello che ho conquistato. Quanta fatica per venirne fuori, ma ce l’ho fatta. Ho tirato fuori una forza che non credevo di avere. Mi sono guardato indietro con tenerezza, a pensare com’ero.”
V: “Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza.”
R: “Aspetta… chi l’ha detta questa?”
V: “Non importa… ora come ti vedi?”
R: “Decisamente più forte. Molto più leggero. A tratti, quasi sereno…ma…”
V: “C’è sempre un ma…”
R: “Ma manca qualcosa…”
V: “Solo che quel qualcosa non lo potrai mai trovare guardando indietro.”
R: “E dove allora?”
V: “C’è chi lo trova in un lavoro, in un’ambizione. Chi lo trova in una macchina, con la strada davanti. Alcuni lo trovano nel deserto. Altri in un’alba che sorge sul mare. Quelli come te, di solito, lo trovano in un sorriso, o in uno sguardo.”
R: “In uno sguardo….”
V: “Ah…allora è di questo che si tratta…”
R: “Uno sguardo.”
V: “Perdersi per uno sguardo così, è sempre la cosa giusta da fare…”
R: “Sono contento che sei arrivato quando ho deciso di chiudere definitivamente questa stagione”
V: “Hai chiuso proprio un bell’inverno, ora hai davanti a te una primavera ed un’estate… stai solo attento ai temporali, ogni tanto capitano.”
R: “I temporali non mi spaventano più.”
V: “Dicono tutti così, poi dopo i primi due tuoni se la fanno sotto. Non ne apprezzano il lato romantico.”
R: “Ora so come scacciare la paura…”
V: “Buon per te…finalmente.”
R: “Sei stato di parola comunque, sei tornato nel momento giusto.”
V: “Noi che viaggiamo siamo così…”
R: “Presto partirò anche io…”
V: “Vorrà dire che mi saprai troverare, nel momento giusto.”
R: “Non ti offendere ma…spero di non rivederti più.”
V: “Fidati, lo spero anche io…”
R: “….grazie, per tutto..”
V: “Volta quella pagina dai…è arrivato il momento.”
R: “Te ne scappi già?”
V: “Mi sono fermato anche troppo.”

R: “……. Ehi aspetta!!!...Vuoi sapere cosa c’è nella pagina dopo???”
V: “…No…già lo posso immaginare…” 

mercoledì 19 giugno 2013

La Nostra Decrescita Serena

E come di consueto inizio il mio settimanale viaggio mentale a ruota libera. Oggi mi improvviso sociologo. Ma mi improvviso davvero, perché le mie competenze in materia latitano. Parto, seguitemi eh…


Nelle ultime settimane è’ avvenuta una piccola grande rivoluzione nel mondo della musica, in particolare in quel ramo estremamente contemporaneo che è la musica elettronica: è uscito il nuovo album dei Daft Punk, Random Access Memories. Un disco che può essere considerato una sperimentazione in un mondo (quello della musica elettronica) che, a detta degli stessi Daft Punk, non si muove di un centimetro dai suoi canoni ben definiti. Un piccolo capolavoro che per innovazione stilistica e punto di svolta mi sento di paragonare non lo so, al taglio nella tela di Fontana, o ad Avatar di James Cameron. Il disco, oltre ad essere spettacolare, segna una rivoluzione perché i Daft Punk hanno composto l’album limitando al massimo i suoni prodotti al computer ed invitando a suonare con loro musicisti veri, reali. “ora abbiamo deciso di fare con musicisti veri quello che prima facevamo con macchine e campionatori”. Hanno lasciato alle spalle il loro concept di suoni, se pur belli e apprezzati dal anche dal sottoscritto, non credo tanto per un mero esercizio di stile, quanto più per assecondare una tendenza, che non è presente solo in musica, ma nella società tutta, di ritornare alle origini, di riappropriarsi dell’essenza delle cose, della voce, degli strumenti. “volevamo rendere le voci robotiche il più reale possibile”.

Questa tendenza, a me pare di vederla crescere di giorno in giorno nel mondo occidentale. Esiste un trattato di un economista francese di nome Serge Latouche che illustra il fenomeno della decrescita serena. Cito spudoratamente: 
"La decrescita si vuole semplicemente contrapporre alla crescita in modo da «far esplodere l’ipocrisia dei drogati del produttivismo». In questo nome si vuole sottolineare la necessità dell’abbandono del sistema della crescita illimitata, che punta solo al profitto e con conseguenze disastrose per l’ambiente e per l’umanità.
La decrescita è un programma politico e il suo piano è il circolo delle 8 R che rappresentano otto obiettivi interdipendenti, che se realizzati, possono innescare un processo di decrescita serena, conviviale e sostenibile:
Rivalutare. I valori sono diventati vuoti simulacri, sostituiti da megalomania individuale, egoismo e rifiuto della morale. Occorre rivendicare valori come l’altruismo, la collaborazione, il piacere, il locale.
Riconcettualizzare. La mancanza di valori dà luogo ad una visione diversa del mondo. Occorre ridefinire concetti come la ricchezza/povertà, la rarità/abbondanza distinguendo gli elementi reali da quelli di creazione artificiale.
Ristrutturare. Adeguare l’apparato produttivo e i rapporti sociali al cambiamento dei valori.
Ridistribuire. La ridistribuzione delle ricchezze e delle risorse ha un effetto positivo sulla riduzione del consumo, per due fattori: ridimensionamento del potere dei consumi del Nord e diminuzione dello stimolo al consumo vistoso.
Rilocalizzare. Segue il principio del “think global, act local” per il quale occorre produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari ai bisogni delle popolazioni.
Ridurre. Ridurre non significa necessariamente tornare indietro. Significa limitare/eliminare il sovraconsumo ed abbattere gli sprechi. La riduzione non coinvolge solo le risorse, ma anche aspetti sociali come il tempo dedicato al lavoro.
Riutilizzare/Riciclare. è necessario ridurre lo spreco, combattere l’obsolescenza delle attrezzature e riciclare rifiuti non riutilizzabili."

Mi rendo conto che il paragone tra Latouche e i Duft Punk sia quantomeno azzardato. Il punto d’incontro tra loro, io credo, sta nella tendenza verso cui sta andando (o dovrebbe andare) il mondo: un ritorno al passato, o meglio, al buono che c’era nel passato con la consapevolezza che il presente non sia tutto marcio e che determinate nostre abitudini siano ormai, per fortuna, irreversibili. Non potremmo vivere oggi, senza elettricità, senza computer, senza cellulari. Senza Studio Aperto!!, no scherzo, senza studio aperto riusciremmo eccome. E chi ora sta pensando che non avrebbe problemi a vivere senza queste comodità, secondo me mente a se stesso. Non gli credo. Il mondo per come è costruito dipende troppo ormai da determinati frutti del progresso, ma non per questo dobbiamo farne un uso indiscriminato o abusarne. L’avvento di internet, del concetto di globalizzazione, di villaggio globale, il progresso digitale diciamo, è arrivato ad una velocità folle e, inesorabilmente, siamo stati sommersi dalla parte negativa di queste straordinarie invenzioni, molto più facile da cogliere a livello superficiale. Col tempo, la fatica e la passione di chi ha intuito le potenzialità e gli aspetti positivi di internet, stanno facendo in modo che lo strumento venga usato sempre più per i giusti scopi. Creare opportunità, traghettare informazioni per il mondo, propagare conoscenza, connettere, a diversi livelli e in diversi ambiti.


Per scrivere la parola “crisi” in cinese, si utilizzano due ideogrammi, il primo si traduce con “minaccia”, “pericolo”, il secondo con “opportunità”. L’opportunità che ci ha regalato la crisi è quella di rivedere le fondamenta del nostro stile di vita e capire che, la qualità della nostra vita e di chi verrà dopo di noi, deve essere il fine ultimo e che per arrivare a questo il modello al quale siamo stati abituati è sbagliato ed inadeguato. 
Lavoriamo, produciamo, costruiamo, occupiamo, deforestiamo, il tutto senza sosta e criterio, ma per cosa alla fine? Ci ammaliamo per guadagnare un sacco di soldi che useremo poi per curarci. Tutto questo, non regge. 
Io non lo so se i Daft Punk l’abbiano capito, ma sanno leggere la contemporaneità come pochi, e secondo me, qualcosa hanno colto. Gli artisti fanno così, da sempre, ne ho già parlato, ed in questo sta il loro merito e la loro genialità (di alcuni ovviamente), nel saper leggere il tempo in cui vivono e tradurlo in quello che fanno, tradurlo in arte, di qualsiasi genere sia.

Negli ultimi anni sono nate comunità per combattere la dipendenza dai social network. Sono aumentate le autoproduzioni, la gente tende a cercare lavori più artigianali e gratificanti. In cucina c’è una progressiva rivisitazione dei piatti tipici, della tradizione povera, in chiave contemporanea. Il prossimo passo da fare sta nelle relazioni tra la gente. Io credo che anche la mia generazione di nativi digitali stia iniziando a comprendere quanto la tecnologia stia fuorviando i rapporti tra le persone. 
Alcuni di noi sentono la necessità di (ri)appropriarsi della spontaneità di conoscere una persona mostrando la propria personalità, il proprio volto, e non l’immagine del profilo, vedere sorrisi che crescono, divampano, o che solo vengono accennati sulle labbra. In chat tutti sorridono allo stesso modo. Analizzare le micro espressioni del volto di una persona. Assaporare il tono della voce. Troppe cose si perdono tra le righe di un sms. Troppe cose rimangono inespresse, rimangono assopite. 
La bellezza dell’ascoltare, e del parlare con calma, argomentando, senza che ti venga la tendinite a scrivere veloce. Le pause della voce. Le cose non dette. Lo sguardo. Il contatto. Il profumo. 
Credo che ogni tanto, certe cose debbano andare un po’ più piano. Il mondo, ultimamente, è andato forse troppo veloce, facendoci dimenticare l’importanza delle cose vere, delle cose semplici, delle cose autentiche.
C’è un tempo per correre, per andare veloci, e uno per fermarsi un attimo a pensare. C’è un tempo per puntare più in alto che si possa, e uno per essere felici di quello che si ha. Un tempo per aver paura, e uno per rischiare. 
Quello che non ci deve essere mai è il tempo per rinunciare. 
Quello che deve esserci sempre è la possibilità di scegliere, di essere liberi, non costretti, a fare o ad essere, senza precludersi nulla perché talvolta, quello che si cerca lo si trova solo dietro a quella porta che non ci si aspetta…




domenica 9 giugno 2013

Africa 15

Da tempo il primo weekend di giugno ha smesso di essere una scadenza importante. Le sessioni di esami finiscono a fine luglio, e ad architettura i corsi non terminano mai prima della fine di giugno. Il campionato termina a maggio, ormai da anni, e le elezioni le fanno sempre in primavera, di solito ad aprile.
Il mio compleanno, persiste a rimanere nel pieno dell’inverno, nonostante le mie consuete lamentele.
Ma ieri, mi sono ricordato quando invece questo weekend era una delle scadenze più dolci che ci fosse, fino a pochi anni fa. A ricordarmelo, è stato mio fratello che lancia in aria la cartella con sorprendente energia disfando inutili libri e quaderni e corre a casa assatanato, posseduto dal demone dell’estate, urlando come se non ci fosse un domani che la scuola è finita.


Mi ricordo che provai una strana sensazione quando suonò l’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola dell’ultimo anno di liceo. Una roba strana. Finì tutto, in un attimo, che sembrava iniziato tutto il giorno prima, e invece, cinque anni erano trascorsi, come un fiume in piena, che nel suo scorrere aveva trascinato gioie, amori, desideri, sogni, aspirazioni, anni, voti, estati, amicizie.
Amicizie.
Lo sguardo delle persone con cui avevo condiviso tutto di quei giorni era meraviglioso, lo ricordo ancora, in maniera lampante.
Avevamo gli esami di maturità davanti, e sotto sotto, un po’ spaventati lo eravamo, ma sapevamo che gli avremmo affrontati insieme e questo ci tranquillizzava parecchio. Preparammo gli esami come si conveniva tra noi studenti modello, bagni al lago o in piscina, partite di ping pong, musica rock e parecchi film. Eravamo fatti così, e a dirla tutta, ancora lo siamo. Tante cose sono cambiate. Siamo cambiati noi, siamo più maturi (alcuni), più cresciuti, meno folli (non tutti), ma un po’ cazzari in fondo lo siamo ancora e lo saremo sempre.
Finimmo gli esami, e avevamo solo voglia di partire. Pensavamo solo a quello, e un po’ si, anche al futuro, ma non troppo.
C’era chi stava per partire, chi stava per iniziare un’università del quale non era convintissimo. Tutti comunque ci stavamo per imbarcare, in qualcosa di nuovo, senza vedere l’orizzonte molto da vicino.
Io, da lì a poco avrei dovuto provare il test per entrare ad architettura, dio solo sa se non l’avessi superato cosa diavolo avrei fatto.
Ogni nostro pensiero sul futuro, era decorato con un meraviglioso punto di domanda alla fine.

E’ strano come i ricordi affiorino, di fronte alle cose più impensate. Un giro in vespa su quella strada, un profumo, un paio di note di quella canzone. Affiorano, non si sa come. Tornano a casa da una lunga vacanza, ma dove siete stati tutto questo tempo? I ricordi, sono di miele. Dolci e speziati. Le prime feste, i primi amori. Le amicizie che sbocciano come nelle migliori primavere, e alcune, che stagionano, come i vini più buoni.
Ti sorprendono, freschi della memoria, nonostante sia passata una vita. Perché quei cinque anni di liceo, cazzo se sono stati belli.
Dal primo giorno del primo anno. Ci trovammo davanti un mondo impacchettato, come un regalo di compleanno, che eravamo ansiosi di scartare. Ma ci mettemmo cinque anni, e qualche mese, per togliere il fiocco e strappare la carta.
Le vacanze a Senigallia, il mondiale e l’estate del 2006, la grigliata a Gavirate, finita la scuola. Il viaggio a Londra e a Bath in giro in quelle vie fino alle tre di notte senza un apparente motivo logico. La raclette, in montagna, d’inverno, saltando il sabato e portando come motivazione sulla giustificazione: “pausa riflessiva in weekend alcolico”. I pomeriggi a giocare ai videogiochi, che tanto per domani non c’è un cazzo. In pullman, a decidere che gusti di gelato mettere nella vaschetta, oggi lo compriamo noi tranquilli. I pomeriggi a fare cortometraggi, quest’anno lo portiamo a casa il “Cuveglio film festival”, Ah bè, che culo! Praticamente ci sono gli oscar, Cannes, Venezia e poi Cuveglio. E comunque lo vincemmo, per due anni. In motorino, a cercare spiagge nuove, si ma aspettiamo Nerk col peugeot che è ancora a Taino. Ma domani interroga?, io mi giustifico, ma le hai finite…va be te ne presto una io.. va che mica sono intercambiabili pirla.
Le stronzate, quantificabili in sei, sette milioni, fatte in classe da me e dalla tribù di peggio asini che abbia mai avuto la fortuna di conoscere. Stronzate di cui non parlerò perché non sono così sicuro che siano già andate tutte in prescrizione.

E poi la Spagna. La poderosa, noi 5, settemila chilometri. Casa Paco, la cuenta, le tapas. il Boody sexy dei marocchini. La pioggia a Granada, solo noi cazzo la potevamo trovare. La spiaggia di Miami, non quella vera, con i suoi bocadillos ai gamberi. La conchiglia del cammino di Santiago, e tutta quella gente che in piazza alza la bicicletta, alcuni piangono dalla gioia. La playa de las catedrales. I semafori rossi di La Coruna. Il casinò di Estoril. I villaggi del Portogallo, annegati nel nulla. La strada che esce da Cartagena, che si snoda nel deserto, illuminta splendidamente da qualche stella. Quella costa azzurra di merda, quanto la odio. Gli occhi di quel vecchio senza un braccio che voleva affittarci un'habitation per la notte. Il verde della Galizia. La musica tamarra dell’Isla de Arousa che ci sveglia alle sette di mattina. La Paella di quella donna meravigliosa a Cabo de Gata. La spiaggia bianca, infinita, nel nord. Cabo Finisterre, e le sua scogliere. Cabo de Sao Vicente e la sua voglia di America. Lisbona e la voglia di salpare. Cabo da Roca, quando iniziammo a tornare indietro.
I momenti in macchina, in cui guardavo fuori dal finestrino, in silenzio, a vedere tutta quella vita scorrere, ad immaginare le storie della gente e dei paesi che incontravamo. A pensare ai loro futuri. A pensare al mio.
Il cartello di Tarifa, Africa 15 km.


Tutto questo sono stati quei cinque anni. E qualcosa ancora in più. Troppo difficile da scrivere, da raccontare, forse anche da ricordare. Quel qualcosa in più impossibile da trasmettere ma che tutti noi abbiamo ben saldo dentro e sappiamo cos’è, anche se è difficile dargli un nome.
Tutti noi, sparsi ormai, in giro, a prenderci il nostro futuro, che torniamo ogni tanto, a fare una colletta per comprarci tre pizze in sette e giocarci il resto a poker. Tanto poi vince sempre lui, c’ha culo.
Tutti, ognuno con altre campanelle, pronte a suonare per qualche altra ultima volta, ognuno ha le sue, di ultime volte, per farci fare un passo ancora, ognuno ha i suoi, di passi ancora.
Inizia a suonare anche per me un’altra campanella, ora che mi sto per laureare (si spera), e guardo a quei giorni con tremenda nostalgia, pur sapendo che, i ricordi, quelli belli, nessuno ce li porterà via. E io credo che nei momenti di buio che affronteremo, quando saremo immersi nella merda, salteranno fuori, come al solito da non si sa dove, da qualche strada, da qualche profumo, da qualche canzone o dal fondo di qualche bottiglia di birra, come amici fedeli, a farci fare una risata. E poi un’altra ancora.









martedì 4 giugno 2013

San Siro 2013

Milano, giugno 2013

Premessa doverosa:
Il mondo si divide in due categorie, chi adora Bruce Springsteen e chi non l’ha mai visto dal vivo.

Sono da poco passate le otto e il sole è appena tramontato dietro al terzo anello, la sera, in punta di piedi, bussa alle porte di San Siro, ospite ritardataria che tutti stavamo aspettando, e piomba sulle teste di sessantamila persone, sopraggiunte in massa per l’evento che parrebbe, tutti quanti stiano aspettando con voglia infinita.
Sono le otto, appunto, e in coda per il bagno sento la folla che urla, esplode letteralmente. Sono all’interno del wc chimico, tirare la leva due o tre volte per igienizzare a fondo, quando sento la voce del boss, Ciao Milano, Ti amo Milano, ti amo Italia.
Corro fuori, non del tutto vestito, non proprio ricomposto.
Attacca con la sua solita potenza, con l’energia che sa infondere solo lui. E si capisce subito che è in forma come non mai, dopo due canzoni scende a raccogliere i cartelli di richieste dei fan. Scoppia, letteralmente, San Siro, e si incendia di rock’n’roll quando improvvisa Good Golly Miss Molly di Little Richards in una versione travolgente.
Ricorda lo storico concerto dell’85 in una delle sue brevissime pause, annunciando che avrebbe suonato tutte le tracce di Born in the U.S.A, album del primo tour in Italia. Le suona tutte, dalla prima all'ultima.
E sono lì, a saltare e urlare su Dancing in the dark e No surrender, a buttare fuori tutto lo schifo che ho dentro, io come migliaia di altri. Lo so. Si vede.
C’è spazio anche per i classici, alcuni dei tanti, dalla favolosa The river, al suo biglietto da visita Born to run.  Invita gente sul palco e come suo solito fa cantare ad una bambina il ritornello di Waitin on a sunny day.
Poi con la chitarra acustica esegue una versione da pelle d’oca di This land is your land
Scorrono anche le immagini, in sottofondo, di Clarence Clemons. 
Siamo alla fine, e proprio quando ci si potrebbe aspettare che calino le forze, il boss, attacca con Twist and shout, e San Siro diventa una bomba, pronta ad esplodere, che esplode, di braccia al cielo, di urla, di twist; il rock, stasera, è a Milano, senza nessun dubbio. Ci si aspetta che sia l’ultima, come l’anno scorso, ancora, finisce su Twist and shout dei Beatles. 
Invece no, non so ancora come sia potuto succedere, ma parte, rapida come un lampo, Shout di Otis Redding, il prato e lo stadio tutto saltano come matti, e giuro, che per un attimo l’ho visto, il fantasma di John Belushi, scendere dieci minuti a ballare con noi, si piega sulle ginocchia e poi torna ad urlare, nel nostro "animal stadium".
Distrutta, la band, saluta ed esce, esausta, dopo più di tre ore di concerto e dieci minuti buoni di Shout. Ma non il boss. Ancora no.
C’è ancora tempo per la chitarra acustica e l’armonica, suona una versione assolutamente struggente di Thunder road, con tutto lo stadio che intona il ritornello, e le note, che rimbalzano dalle gradinate e fuggono da San Siro, escono dai cancelli e volano dentro a Milano, che nel mentre, si addormenta. Arriva a tutti. Corrono, le note, a rimboccare le coperte dei letti dei bambini, passando per i vagabondi in stazione centrale. Entrano dalle finestre del quartiere QT8 (questo lo so per certo), passano per i navigli di porta Genova e si attorcigliano sulle guglie del duomo. Toccano le puttane di corso Sempione e i ragazzi delle colonne di san Lorenzo. Rimbalzano sui muri del castello sforzesco ed echeggiano nelle corti della statale. 
Si attardano nelle strade, nei larghi, sotto i ponti della città. Scaldano il cuore di tutti quelli che incontrano. Abbracciano con affetto tutta Milano, e soprattutto noi tutti che siamo lì, a ricordarci come si sogna.


Ci si poteva perdere questa sera, negli occhi di ognuno dei sessantamila che saltavano a San Siro, ognuno con la propria vita, le proprie gioie, il proprio passato, i propri demoni, lasciati fuori dallo stadio, a marcire e qualcuno a morire, almeno per stasera.
E stasera fanculo a chi dice che sono un sognatore, fanculo a chi mi dice di non illudermi e di stare con i piedi per terra. Fanculo a chi non crede mai a nulla. Fanculo a chi butta via quello che trova di buono e poi si lamenta. Fanculo a chi ascolta la musica bassa. Fanculo a chi non rischia. Fanculo a chi ha paura. Fanculo a chi rinuncia. Fanculo a chi non salta. Fanculo a chi non sorride. Fanculo a chi non sa amare.
Urla il boss, e salta, guardiano e ammiraglio dei sogni di tutti i sessantamila intorno a me, salpati alla volta della propria terra promessa, a stanare, da qualche parte laggiù, finalmente, la felicità, e a strapparla via con tutte le forze, senza arrendersi mai, anche quando davanti ci sono difficoltà, anni, chilometri e fatica.
Perché il boss, e quelli che lo ascoltano, sono fatti così, sono nati per correre.
Stasera si va di solo cuore. 
Da oggi si vive solo così.
Perché poi è questo che mi ha insegnato il boss, trovare sempre e comunque le forze per suonare ancora una canzone…