lunedì 18 novembre 2013

All Bad Things Must Come to an End


Eravamo appena fuori Milano, in macchina, lungo l’autostrada A4, quando sentii parlare per la prima volta di Breaking Bad. Era da poco passata l’una di notte, io e un mio amico, ora lontano, stavamo tornando dall’Alcatraz, ancora increduli ed esaltati per il clamoroso concerto dei Gaslight Anthem, unica data italiana. Ricordo che si parlava come di consueto di film, di musica, e di serie tv. “Devi vederti per forza Breaking Bad”, disse ad un tratto, “è la serie migliore che ci sia”. E poi continuò con un monito:
Attento però, per davvero. Crea dipendenza.
Ci misi una settimana a reperire la serie e poi cominciai a vederla. Era il novembre 2012, la mia vita era in una fase di svolta che non mi aspettavo, erano le porte di un anno stranissimo ma allo stesso tempo decisivo per me, era l’inizio di una rinascita, e il destino aveva deciso che era tempo di guardare e vivere Breaking Bad.




Walter White è un professor di chimica di un liceo di Albuquerque, New Mexico, ed insieme a sua moglie e suo figlio conduce una tranquilla ed ordinaria vita tipica delle migliori famiglie che abitano le periferie americane. Gli diagnosticano un cancro in via terminale, cosa che getta il professor White nel panico. I soldi che servono per le cure sono tanti e la famiglia non naviga in buone acque dal punto di vista finanziario. La paura di non lasciare nulla ai suoi famigliari dopo un’eventuale morte attanaglia il professor White. Un giorno però, dopo una retata antidroga condotta con il coniato Hank, poliziotto della DEA, capisce quale può essere la soluzione. Contatta un suo ex alunno, Jessie Pinkman, ed insieme iniziano a produrre cristalli di metanfetamine, utilizzando l’enorme conoscenza della chimica del professor White per la produzione e l’esperienza ed i contatti di Jessie per la distribuzione.
Da qui in poi iniziano le cinque stagioni più pazze, deliranti e maniache della storia del cinema. Nel corso della serie fanno comparsa personaggi incredibili, uno su tutti Saul Goodman (personaggio da cui stanno attingendo per creare uno spin-off, una sorta di prequel di Breaking Bad), colonne sonore spettacolari, humor nero a secchiate e colpi di scena continui. La serie coniuga momenti di velocità adrenalinica e altri in cui prevalgono i silenzi, le azioni fatte con calma, meraviglioso ossimoro stilistico in grado di rendere le puntate a dir poco imprevedibili. Ogni puntata succede qualcosa d’inaspettato e il più delle volte di totalmente illogico, almeno all’apparenza, spesse volte impulsivo e irrazionale. Ogni azione conduce ad una reazione uguale e contraria, questa è fisica, ma va bene lo stesso.
Di cose da dire su Breaking Bad ce ne sarebbero miliardi, ma questo non è una recensione della serie, ne tanto meno un riassunto delle puntate migliori, è una raccolta di alcune riflessione fatte nell’ultimo anno.
Per alcune persone, le serie tv, non solo si guardano, ma si vivono. Ci si immedesima intimamente nei personaggi al punto da considerarli persone vere e proprie, al punto di pensare di conoscerle, tanto che si suppongono in anticipo le loro mosse, superbamente si pensa di dare loro consigli ed inevitabilmente si copiano i loro comportamenti, pensando che in fondo, le loro emozioni e le loro situazioni potrebbero essere paragonate alle nostre, in un’assurda visione della realtà testimonianza di un primordiale bisogno di chiunque di rivedere qualcosa di noi stessi negli altri, di sapere, o credere, che qualcun altro abbia le nostre paure e viva i nostri desideri.
All’interno di Breaking bad ci sono molte delle angosce con cui mi sono scontrato durante l’ultimo anno, anche se declinate, come ovvio, in maniera diversa: Il personaggio di Jessie ad esempio, ragazzo sbandato e tossicodipendente non tanto per scelta, ma piuttosto come reazione all’ambiente senza stimoli e senza futuro nel quale è immerso. La claustrofobia di cui sembrano preda sia Jessie che il professor White è una delle componenti che si insinua in chi guarda e concorre ad attribuire fascino e mistero alla serie. Albuquerque è un’enorme città circondata dal deserto, e sembra in questo modo essere isolata dal resto del mondo, pare galleggiare, alla deriva, in un oceano di sabbia. Nonostante la grandezza della città ci si sente sempre, per tutta la serie, in trappola, ci si sente chiusi, tappati e questo anche alla luce dell’utilizzo di enormi campi lunghi della telecamera sul deserto, a ricordarci che si può guardare per chilometri e chilometri senza però mai trovare nulla.
I due personaggi mutano radicalmente durante la serie, ma a livelli opposti, chi passa da buono a malvagio e viceversa.
La parabola del cambiamento di personalità di Walter White, da tranquillo padre di famiglia, a produttore di droga ed infine a malvagio gangster. Il male, che in misura diversa è presente in ognuno di noi, s’impossessa progressivamente del protagonista imprigionandolo in una gabbia di menzogne dalla quale non riuscirà più ad uscire.
C’è una scena nella prima puntata in cui Jessie e il professor White stanno per comprare il camper ed iniziare a produrre la droga, Walter White gonfia i polmoni, fa un respiro profondo e dice di sentirsi finalmente vivo, di sentirsi finalmente, dopo tanto tempo, libero dalla routine nel quale è immerso, libero dal suo matrimonio silenziosamente opprimente, per la prima volta da quando era ragazzo può concedersi di uscire dagli schemi costituiti e da ciò che la gente si aspetta da lui, una sorte di reazione all'imposizione esterna di un comportamento e sembra quasi che il fatto di essere malato di cancro sia la giustificazione ed il pretesto che da tempo stesse aspettando. La sensazione di sentirsi libero, che ho riscoperto nel corso di quest’anno, mese dopo mese, reazione su reazione, in cerca di quell’equilibrio che avevo capito non essere stato fino ad allora sufficientemente stabile. Tutto ciò porta lo spettatore che s’immedesima nei protagonisti, a provare progressivamente quella sensazione di riuscire a porre fine a quella follia nella quale sono immersi il professor White e Jessie semplicemente allungando la mano ed avendo il coraggio di lasciarsi alle spalle tutti gli errori fatti. Ci sono alcuni punti della serie in cui la salvezza è lì ad un passo e i due protagonisti trovano sempre e comunque il modo per far degenerare la situazione, per autosabotarsi in un turbinio masochistico che troppe volte porta, per seguire l’orgoglio personale e le cose futili, a dimenticarsi di quello che ci circondano che davvero conti qualcosa.
Ed infine la strana alchimia tra Jessie e Walter White, amici, nemici, soci, padre e figlio, ma in fin dei conti gli unici sui quali possono reciprocamente contare. E alla fine, nonostante le diverse evoluzioni dei due personaggi, nonostante il diverso destino dei due, rimane comunque il tempo perché si guardino e senza esagerazione, senza morale, ma solo con un po’ di complicità criminale si scambino un cenno, di commiato, di intesa, di amicizia, di quelle strane cose di cui si nutrono certi rapporti tra le persone che la vita fa nascere. Non c’è perdono tra i due, c’è solo la consapevolezza di aver percorso un tratto insieme e di aver innescato delle relazioni troppo pericolose.

Forse perché in effetti, quello che suggerisce la serie è che la vita è tutta una questione di chimica. Di legami, che resistono o si spezzano. Situazioni che stanno in un equilibrio che delle volte va rotto e altre volte sarebbe meglio di no. Di reazioni che si scatenano quando due fonti di energia vengono a contatto. Alcune reazioni che avvengono lente, come la ruggine, come quando la noia e la mancanza di stimoli si impossessano di noi. Altre reazioni invece che sono rapidissime ed arrivano nella nostra vita come un’esplosione, l’amore, la rabbia, il rischio.
E' tempo di chiudere la stagione di Breaking Bad ora che ho cambiato casa e ho finalmente accantonato quest’ultimo anno. E’ arrivato il momento di porre fine a quella famosa claustrofobia di cui parlavo, quella stessa che sentiva Jessie forse, anche se, attorno a me non c’erano deserti, almeno in apparenza.
E’ arrivato il momento di scrivere una nuova formula chimica per andare avanti, verso nuove storie, da vivere, verso reazioni, da innescare. Fino a quando non si consumerà tutta l’energia, così come qualche mese fa, perché “all bad things must come to an end”, ma in realtà un po’ tutte finiscono, nonostante, vi assicuro, non in maniera definitiva e questo, non è certo un addio; del resto, non tutte le reazioni sono irreversibili. In fin dei conti, ancora una volta, la risposta la suggerisce la chimica del professor White: sulla terra nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto, si trasforma.


martedì 12 novembre 2013

La Maschera del Mare



Così soltanto all’orizzonte
scorgi l’orlo turchino del mare.
A destra e a sinistra è una distesa
tutta abitata e popolosa.

Goethe


Le piccole città affacciate sul mare, d’inverno, rimangono disabitate.
I negozi sono chiusi e i ristoranti sono vuoti. Scorgendo all’interno delle vetrate degli alberghi, quelle poche che restano visibili, si notano enormi teli bianchi a coprire divani, banconi, tavoli, sedie e tutti gli arredi. Per le strade le poche persone che si incontrano sono per lo più sfuggenti e timide. Hanno dipinto in faccia il disagio di incontrare uno straniero in questa stagione. Come se non fossero preparati, come guardare una ragazza che si è appena lavata il trucco dopo una serata importante, perché solo quelle veramente belle non hanno vergogna. Gli unici che cercano di socializzare sono i matti del paese. Bere una birra con un matto può condurre di solito a due strade ben distinte, o vi uccide, o vi rivelerà delle verità sulla vita a cui non avevate mai pensato, a conferma del fatto che la saggezza delle volte si nasconde nei posti più impensati.
Anche il mare stesso sembra più selvaggio del solito. Si agita senza ritegno, allo stesso modo di quando si libera un cane normalmente legato al guinzaglio. Il mare che corre e si agita fino alle catene del prossimo maggio. 
Camminare per una città disabitata è come entrare in camera di qualcuno mentre sta dormendo. Si entra in punta di piedi, in silenzio, con la sensazione di violare l’intimità di chi è assopito, arrecandosi il diritto di coglierlo in un momento in cui è indifeso.
C’e una calma surreale nelle città disabitate, come dopo un temporale fortissimo, tutto rimane congelato com’è. Spento.  In attesa.


Capitò una cosa simile quest’estate durante il viaggio in Spagna. Arrivammo a Murcia a metà pomeriggio, piuttosto stanchi e provati per il caldo che, man mano che i giorni passavano e le latitudini scendevano, si faceva sempre più insostenibile. L’obiettivo della meta era quello di goderci in serata il famosissimo festival del flamenco. Famosissimo per davvero, non sono ironico. Notammo appena entrati in città che c’era qualcosa che non andava. La città era disabitata, vuota, chiusa. I negozi chiusi, le serrande abbassate e le uniche forme di vita che abitavano la città erano gatti, matti, e poliziotti. Solo i gatti si riconoscevano nitidamente. Da subito pensammo, ottimisti ed ingenui, che fossero tutti rintanati nelle proprie case per difendersi dal caldo e prepararsi per la grande serata. Quando finalmente ci imbattemmo in qualcuno che non fosse un matto, un poliziotto o un gatto, e cioè una giovane coppia che spingeva un passeggino chiedemmo subito delucidazioni e informazioni sul flamenco. La giovane donna possedeva quella tipica bellezza che fa perdere la testa. La risposta del giovane uomo, quando riuscì ad ascoltarlo, inizialmente ci tranquillizzò: “ah si si il festival del flamenco. Certo che c’è.” 
Ci guardammo sorridendo con quell’espressione tra il sollevato e il “ve l’avevo detto”.
Prosegue poi l’uomo: “ Si ragazzi però non è qui, lo fanno a La Union, ma dubito che troverete un posto per dormire ormai.” 
Panico. Giusto quei duecento chilometri fuori mano. 
Quello che ignoravamo era che Murcia non è solo una città, ma un’intera regione. E che la città vivesse soprattutto per l’università che, come dovrebbe esserci noto visto che sia io che i miei compagni di viaggio la frequentiamo, di norma ad agosto resta chiusa e gli studenti sono in vacanza, altro dato deducibile dal momento che in vacanza ci eravamo pure noi.
Murcia ad agosto non tutti possono dire di averla vista.

Questo perché le città, come tutte le cose, non sono sempre uguali. Non sono sempre bianche o nere, e tutto nasconde qualcosa che rimane sotto la superficie. 
Ma non solo le città hanno un lato B.
Allo stesso modo, delle volte, dentro ogni persona esiste qualcosa che rimane coperto, nascosto e spesso nemmeno lo sappiamo. Dentro di noi c’è sempre di più di quello che crediamo. C’è più coraggio, c’è più cuore, c’è più follia, e analogamente alle città d’inverno tutto questo si manifesta soltanto occasionalmente.
Parlo della vera essenza di ognuno di noi, che si svela delle volte soltanto quando l’estate finisce e passa la folla. Quando ci sentiamo protetti e senza più minacce.
E di solito,  il lato migliore di qualcuno o di qualcosa è proprio quello che rimane nascosto per la maggior parte del tempo, quello che non si svela  a tutti e che va cercato con dedizione ed impegno. Quello che si rivela solamente a chi lo merita. 
Non è facile capire veramente le persone e scoprire quello che celano con cura dietro una maschera decisamente più comoda, e non lo dico con spirito critico, succede e basta. Succede anche a me. Amiamo tutti girare con gli occhiali da sole per coprire gli occhi tristi in una brutta giornata, anche se il cielo è nuvoloso. La verità è che rimanere all’interno di binari ben definiti è molto più semplice che andare contro la corrente. Celarsi è più facile che rivelarsi. Far venir fuori la vera parte di noi stessi, ammesso che uno sia in grado di controllarla presuppone una quantità di rischio che non sempre si ha voglia di sobbarcarsi. 
La paura di mostrare se stessi.  La paura di essere giudicati, di essere inadeguati. 
Alcuni sembra davvero che riusciranno a nasconderla per sempre la loro parte migliore. 

Ecco perché amo il mare d’inverno. Perché mi da speranza che esista quel momento nella vita delle persone in cui ci si riesca a disfare delle maschere ed indagare quello che sta sotto la superficie. A tirarlo fuori selvaggio come il mare senza più catene. 
Mi fa pensare che finalmente possa arrivare uno di quei rari momenti in cui una persona che crediamo di conoscere bene mostri una parte di sé che ignoravamo e in questo modo ci sorprenda.
Sono quei rari spettacoli che la natura o le persona ogni tanto ci concedono.
E’ come vedere il dietro le quinte di uno spettacolo. Un fiocco di neve ad agosto. Una lacrima di dolore sul viso di un attore comico. Due mani che si stringono e due sorrisi che si accennano, senza dire una parola.


Si ringrazia "Il Corriere Contromano, Dargen D'amico, Vivere Aiuta a Non Morire" 
(non sono riuscito a linkarla)