sabato 14 giugno 2014

Stagioni azzurre





La mia seconda liceo terminò intorno al 10 giugno dell’estate 2006, la più bella in assoluto che ricordo.
Fu l’estate dei bagni al lago tutti i giorni di quei mesi, delle uscite tutte le sere, quella dei primi coprifuochi non rispettati, della prima compagnia, della prima vacanza.
Fu l'estate dei mondiali in Germania.

Dopo due settimane di pronostici e commenti sulle convocazioni iniziarono i mondiali. A guidare la compagine azzurra c’era Marcello Lippi, toscano saccente di non molte parole, esperto condottiero della Juventus di fine anni ’90. Non partivamo favoriti, come sempre del resto. L’esordio azzurro Italia-Ghana si giocò una sera ventilata di metà giugno. Alle nove tribuna organizzata a casa di un amico, solo maschi, com'era buona norma in questi casi. La partenza qualche decina di minuti prima, giusto per non arrivare a ridosso. Motorini senza strozzi e casco con la visiera rigorosamente alzata per respirare a pieni polmoni il profumo della libertà che stavamo pian piano conquistando. Giorno dopo giorno, partita dopo partita. Dopo un chilometro o poco più la macchina davanti a me mi taglia la strada, volo per terra non mollando il motorino che si infrange sul paraurti della macchina. Non mi feci nulla, ripartii subito pensando che a meno che fossi in punto di morte dovevo andare a vedere Italia-Ghana. Circa quarantacinque minuti dopo Pirlo aprì le marcature. Il sangue sulle mie ginocchia si era già coagulato. Al gol di Iaquinta avevo già una meravigliosa cicatrice, la firma del nostro esordio sulla mia pelle, il lago, i giorni successivi, avrebbe lentamente lenito quella ferita simbolo della gloria che stava per cadere sulle nostre teste di sedicenni.
Giusto il tempo di qualche bagno, dopo i Griffin, com’era tradizione, e fu la volta di Italia-USA. Questa volta mi feci portare in macchina, finì uno ad uno e subito pensai che nell'incontro decisivo, tre giorno dopo, se fosse servito a vincere, sarei volentieri caduto un'altra volta. Italia- Repubblica Ceca la vidi a casa con mio nonno. Vincemmo agevolmente e staccammo il biglietto per la fase finale. Con mio nonni vidi anche gli ottavi e i quarti con Australia e l'Ucraina di Shewcenko, vecchio re Leone alle prese con gli ultimi spasmi di vita, vita calcistica, è ovvio. 
Nel mentre l’estate entrava nel vivo, aumentavano le serate e la nostra eccitazioni per una situazione a cui nessuno aveva immaginato. I pronostici cambiavano con la velocità di un temporale. In un attimo passavamo dall’ottimismo sfrenato al catastrofismo più totale. Dovevamo distrarci.
Organizzammo le vacanze, il nostro primo viaggio senza genitori. Destinazione Senigallia dove uno dei miei amici possiede (tutt’ora) un bilocale a due passi dal mare. La situazione ideale per dei sedicenni che non vedevano l’ora di tuffarsi in un paio di settimane lontano dai genitori rompicoglioni (non loro in particolare, ma i genitori come categoria sono rompicoglioni per definizione). Ma prima di partite c'era una semifinale da giocare, e per noi da vedere. Due giorni per decretare il posto migliore dove vederla. Scegliemmo il Flamingo, in cui andammo rigorosamente in motorino, a quei tempi lo usavamo anche per andare al cesso.
Bar gremito, tutto pieno, fortuna che andammo presto. Partita tesa, tirata. Ci si disperava di continuo per ogni occasione mancata, anche per i replay, si esultava anche per ogni rimessa laterale guadagnata. Un’atmosfera surreale. Quella semifinale fu senza dubbio la partita più bella, è scolpita indelebile nei nostri ricordi e rimane, ancora oggi, il simbolo di quel mondiale.
Arrivammo ai supplementari visivamente provati e proprio quando si avvicinò lo spettro dei calci di rigori Pirlo pesca Grosso in area, sulla destra, che con un magistrale colpo a giro al volo insacca facendo esplodere un paese intero che stava incollato agli schermi. Un tipo davanti a noi ricordo che saltando rovescio un litro di birra addosso a Ziopera. Iniziò ad esultare e bestemmiare nello stesso tempo, uno spettacolo grandioso, noi stessi non sapevamo se guardare l’Italia esultare o Ziopera fradicio.
Passarono due minuti, Cannavaro, ancora Cannavaro contropiede con Totti, Gilardino, Del Piero goal, ci fiondiammo alla porta pronti ad andare a finire la batteria dei nostri motorini con il clacson. Così successe in effetti. Il clacson del mio motorino non so riprese mai più!
Le vie di Angera erano gremite come mai mi capitò di vedere e si viaggiava a passo d'uomo.
Eravamo ancora in finale dopo dodici anni. La nostra prima vera finale. Di corsa a casa a chiudere la valigia perché da lì a pochi giorni saremmo dovuti partire per Senigallia.
Infradito costumi e la maglietta di toni, azzurra, la numero 9.
Il 9 luglio 2006 è un giorno avvolto nella nebbia del ricordo. Fino a metà giornata cercammo di fare come se niente fosse: bagni al mare, partite di beach volley, silos di stronzate.
Da metà pomeriggio in poi la tensione diventò palpabile a vista d’occhio.
Come finì è storia nota. Rigore di Zidane, lo sconforto, il pareggio di Materazzi, siamo ancora vivi, la sofferenza, la pizza che ci va di traverso, i tempi supplementari, un giocatore a terra, Buffon che corre, la famosa testata, uno dei migliori giocatori di sempre che finisce così male la sua carriera, sfila negli spogliatoi sfiorando la coppa del mondo, antipasto di ciò che sarebbe successo da lì ad un quarto d’ora. La Francia perse i mondiali in quel momento. 
L'Italia trattenne il respiro per un tempo interminabile sull'ultimo rigore, prima di urlare senza ritegno, da nord a sud, tutti uniti, per una volta, nel nome di una passione comune. Perchè noi italiani siamo così, giochiamo partite di calcio come fossero guerre e combattiamo guerre come fossero partite di calcio.
Esplodemmo tutti, quella vittoria era arrivata, nel momento migliore che ci potesse essere. Festeggiammo per ore, in giro per il lungomare di Senigallia in festa, quattro sedicenni lontani da casa nella prima e forse ineguagliabile stagione azzurra.

Per quelli della mia generazione i mondiali del 2006 furono più che mondiali, furono un simbolo d’identità che mai ci scolleremo, nonchè il culmine di un’estate meravigliosa vissuta al massimo.
Ora, dopo 8 anni, qualche stagione azzurra trascorsa, dopo un numero illimitato di coprifuochi non rispettati tanto da svanire del tutto, dopo decine di vacanze fatte e centinai di birre versate in gola e addosso a Ziopera, dopo aver visto quasi tutti i nostri eroi di quei giorni ritirarsi e dopo aver finito del tutto il liceo, abbiamo una grande, incredibile voglia di vedere ancora il mondo colorato tutto di azzurro.


venerdì 6 giugno 2014

Coffisciop



Sembrava così corta quella strada, e ci camminiamo da venti minuti. Avanti e indietro, senza sosta, senza motivo apparente. Concentrati ma divertiti, decisi ma ironici. Inciampando su tombini, gradini e speranze. Alle spalle chilometri di città, dalla stazione ai canali fino ad arrivare, tipicamente, allo stadio.
Ed eccoci qui, dentro e fuori un coffe shop, fuori e dentro le nostra mente con le nostre idee, a vagare immobili fra ciò che abbiamo lasciato a casa e quello che ci insegue sempre, mentre scivoliamo per sbaglio nel futuro.
Proprio lì sta quell'attimo di evasione dalla routine, quel momento di confusione. Il senso di calma e tutto sta fermo, tutto immobile prima della tempesta, anche il vento non fa rumore. L'odore di fumo. Divampiamo tutti e si vaporizza nell'aria, piove sempre ma non c'é nessun tuono. 
Un tiro per ogni attimo perso, un tiro per ogni errore, un tiro per i sensi di colpa ed uno per le occasioni perse. Aspiriamo solo i sogni, mandiamo giù le speranze. 
La strada piena e la porta del bar chiusa. Piove irragionevolmente. Acqua nebulizzata che pizzica ovunque. Il vento freddo galoppa senza sosta. Quella fame. Si cammina, avanti ed indietro, si gira in tondo, si va e si torna. Il rumore delle risate. Le nostre e quelle della città. Il vuoto che quasi si cade. Siamo lontani, distanti dalle cose di sempre, fermi in un limbo tra il niente e il ricordo.
L’odore che s’impregna. Le luci che si accendono, girano tutte intorno a noi, fermi, cullati dal muoversi della città.
Solo ieri Bruxelles, oggi Amsterdam, domani sarebbe bello proseguire verso nord.
A circumnavigare il globo quanto ci si metterà? Ha un che di giusto girare, partire e tornare. Come tutti questi anni e queste stagioni, che tornano ma non sono mai uguali eppure ritornano sempre, ogni volta simili ma un po’ diverse, mai banali e nemmeno superficiali, fanno ritorno con qualcosa di nuovo da spendere ed imparare. Gli anni no, quelli no, non tornano, loro si fermano qui, non circumnavigano niente, vanno da un punto all’altro e poi si perdono, svaniscono, lasciano solo il ricordo ad attenderli per l’eternità.
Un tiro per ciò che non torna.
E corriamo per le strade i vicoli e i canali, nuotiamo controcorrente, vestiti male in mezzo ai nostri simili, nutrendoci di differenze.
Ridiamo di noi stessi come di chiunque altro.
Ad Amsterdam le agenzie di viaggio hanno piante in esposizione e biglietti di aereo arrotolati. Frutta tropicale già shekerata e rose dei venti a sette punte. Destinazioni infinite. Fiori colorati. Tulipani.
Sette punte sui nostri forconi, sette punti da toccare da qui ai prossimi sette anni. Sette punti da vedere, sette, punti di vista da cambiare, continuamene.
Canzoni che solo al mare possono essere ascoltate, suonate dal vento e dal profumo di sale. Un mare di colori tutti intorno, dipinti a caso nel grigio dei muri. Non sopporto il mare freddo senza che ci sia il vento e la sabbia. Il mare dovrebbe essere sempre al sole, come dire che si dovrebbe ridere sempre, e Dio solo sa quanto serva anche che arrivi un temporale qua e là.
Aspettiamo mesi che arrivi l’estate ma non vogliamo mai che finisca l’inverno. Aspettiamo di diventare grandi ma non vogliamo che finisca la giovinezza. Un ultimo tiro anche per l’inverno. Camminiamo ancora, vedremo fin dove, tanto basta per il momento, di avere una strada e una meta che non si vede, tante luci e colori e la testa che gira, sperando che torni, almeno lei, proprio lei un po’ diversa.

Che poi infine si butta tutto e l’aereo decolla, ostaggi delle nubi, liberi di volare dove scegliamo, e di ritornare a casa quando vogliamo.