Di storie legate al mondo dello sport, ed a quello del
ciclismo in particolare, ce ne sono un’infinità, e molte delle quali, viaggiano
seguendo quella linea di confine che separa la realtà dalla fantasia, la
cronaca dalla leggenda, la storia dal mito.
La storia del tour de France per esempio, la grande boucle, la corsa più
affascinante del mondo, nasconde nei suoi annali gesta incredibili, sepolte
sotto strati di ricordi in bianco e nero, alimentate dai racconti di chi c’era
con le licenze poetiche di ognuno. E così ogni tappa raccontata, ogni montagna,
ogni particolare, viene romanzata come se i suoi protagonisti fossero attori, o
meglio ancora, personaggi epici come Omero o Achille.
Uno di questi era Abdel Khader Zaaf, forse il primo africano
che partecipava ad un tour, di sicuro il primo di cui ci si ricorda, che nella
tappa Perpignan-Nimes scattò a duecento km dal traguardo insieme ad un altro
algerino lasciando il gruppo ad inseguire sotto un caldo tremendo che non
preoccupa minimamente i due atleti. Ma a quindici chilometri dall’arrivo Zaaf
inizia ad andare a zigzag e viene fermato dai commissari della giuria. Lui
protesta, rimonta in sella e dopo poco sbatte sul ciglio della strada e
stramazza sotto un albero di platano, addormentandosi di colpo. La folla lo
sveglia, lui si rimette in sella e riparte all’impazzata, ma dalla parte
opposta. Finirà la tappa in ospedale e i giorni successivi si vocifererà che
qualcuno gli avesse passato una borraccia di vino rosso che lui, musulmano, non
riuscì a reggere minimamente.
Le primissime tappe in salita sono veramente avvolte dal mistero.
Si narra di ciclisti visti sulla cime delle prime montagne scalate, su strade disastrate,
perdere l’uso della vista per la troppa fatica ed inveire contro gli organizzatori
dandogli dei criminali. O del ciclista francese in fuga che era talmente avanti
rispetto al gruppo che quando gli si ruppe la forcella in seguito ad una
caduta, fece in tempo ad andare a piedi dal fabbro del paese per farsela
riparare. Leggende.
Storia vera invece è quella del tour 1948, dove partecipa un
Bartali trentaquattrenne, sul finire di una carriera bruscamente stroncata
dalla guerra, che portò via i suoi anni migliori, a lui, come a molti altri giovani
di allora. Alla tredicesima tappa Bartali è settimo con un pesante ritardo di
ventuno minuto dal primo in classifica, l’americano Bobet. I giochi sembrano
ormai fatti. Nello stesso momento, l’Italia, è sull’orlo di una pesante crisi
in seguito all’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del PCI, ferito da uno
studente di destra. In Italia si susseguono le manifestazioni spontanee e la
CGIL proclama uno sciopero generale, alcuni arrivano a prendere le armi. Lo
scontro sembra inevitabile, e c’è gi chi profetizza un’insurrezione di massa.
Mentre l’Italia è sull’orlo del caos il presidente Alcide De Gasperi telefona
in Francia alla delegazione italiana, spiegando la situazione e chiedendo a
Bartali un’impresa per distrarre l’opinione pubblica e calmare gli animi.
Bartali vincerà la tappa, e dopo quattro giorni prenderà la
maglia gialla trionfando a Parigi. In Italia la situazione si placa, e si dice,
soprattutto per l’orgoglio di aver visto nuovamente un italiano trionfare al
tour.
Il primo tour che ricordo personalmente è quello dell’estate
1998. Avevo 8 anni e trascorrevo le mie estati in compagnia dei miei nonni, perso
in quello che allora mi sembrava il giardino più grosso del mondo, tra l’orto e
le piante di fiori o da frutto, giocando con tutto quello che trovavo in giro.
Mio nonno è sempre stato un appassionato di ciclismo e quella fu l’estate in
cui la sua passione contagiò anche a me, anche perché, in quel periodo, l’entusiasmo
era alle stelle, un nuovo campione italiano era nato nel ciclismo. il suo nome
era Marco Pantani.
Pantani era un atleta piccolo e leggero, come si addice ai
migliori scalatori. I Suoi scatti in salita erano delle frustate decise e
inarrestabili, saltava su i pedali, faceva il vuoto dietro di sé. L’Italia
intera aveva un nuovo idolo, in grado di umiliare i migliori ciclisti del
mondo, dal tedesco d’acciaio Ian Ullrich, al russo Pavel Tonkov, l’uomo più
inespressivo della terra, si vocifera che non sentisse ne la fatica ne il
dolore, ma forse è un’altra leggenda.
Era soprannominato Il pirata, per via
della bandana che amava tenere in corsa, che gettava via poco prima di sferrare
un attacco, prima di partire all’arrembaggio, esattamente come un pirata, come
fosse un presagio di sventura.
Il 1998 fu l’anno di Pantani, centrò la coppiata giro d’Italia
- tour de France dopo che l’ultimo italiano a farcela era stato Fausto Coppi
una cinquantina d’anni prima. Tutta Italia lo adorava e lo seguiva.
Fu un colpo al cuore quando circa un anno dopo venne escluso
dal giro d’Italia, dopo la tappa di
Madonna di Campiglio, per ematocrito alto, in seguito a controlli che Pantani e
la sua squadra sapevano avrebbero dovuto fare. Iniziarono anni duri per
Pantani, tra brusche scivolate e timide risalite, lui che era solito
mangiarsele le salite. Io e mio nonno increduli, il nostro idolo spazzato via
da un vortice mediatico implacabile. Non ci appassionammo più per nessun
ciclista, nemmeno Bettini o Savoldelli. Pantani non si rialzò mai del tutto.
Morì esattamente dieci anni fa, la notte di S. Valentino, dopo processi
interminabili ed un accanimento giudiziario che non aveva avuto nemmeno Totò Riina.
Dieci anni dopo, non mi va davvero di presentare elementi
per avvalorare la tesi del complotto, o condannarlo senza pietà, non sta a me
giudicare e non è la sede giusta. Avevo solo voglia di ricordare l’atlleta
formidabile e l’uomo fragile che era, capace di imprese sportive incredibili ma
non di uscire fuori da una spirale d’odio nella quale era intrappolato, perchè attaccare come faceva lui, nella vita, a volte non basta se non si riesce ad assorbire i colpi che arrivano.
Ma Pantani è anche la persona che mi ha insegnato che
quando nella vita si deve attaccare, per vincere è necessario fare il vuoto
dietro di sè.
Ogni tanto quando penso a lui, penso quanto sarebbe stato
bello se di fronte a tutti quelli che l’hanno messo in croce lui avesse
semplicemente preso la bicicletta e fosse scattato via come sapeva fare lui, in
piedi sui pedali, facendo il vuoto dietro di se, a lasciare chi gli voleva male
a provare inutilmente ad inseguirlo, e noi, con un sorriso e un pensiero nella
testa: “non lo prenderete mai, non lo prenderete mai…”.
Ma questa purtroppo, è un'altra leggenda.