martedì 30 luglio 2013

Mille Altre Cose...


Chiusa la valigia e riordinata la camera, rimane il vuoto e il silenzio, e dentro di esso, vedo e sento le immagini e i suoni degli ultimi mesi.
Risuonano le comprensibili lamentele di chi fino a ieri professava sconfinato amore per questo blog, loro, li sento urlare, come i vecchi al bar, che non ci sono più i blogger di una volta, così come le mezze stagioni probabilmente. Constatato quindi che si stava meglio quando si stava peggio e che piutost che nagot l’è mei piutost, ecco che sono tornato a scrivere un pezzo, in un fazzoletto di tempo che mi sono ritagliato più per sbaglio che per volontà.
Sono sempre stato sensibile alle scadenze e alle ultime volte, più ancora che alle prime. Mi hanno sempre affascinato le conclusioni di parti della mia vita, molte volte definite in maniera più che forzata dalla mia volontà di voler enfatizzare momenti e forse di volerli caricare di importanza anche quando non ne avevano poi così tanta. Come fermarsi un nano secondo a guardare l’aula dove hai dato l’ultimo esame, o dopo esserti imposto di ricordare cosa hai servito sull’ultimo tavolo quando facevo il cameriere: un cappuccino, un caffè d’orzo in tazza piccola latte freddo a parte, un caffè normale.
Un vizio, questo, che già mi aspetto mi farà pagare il conto tra qualche anno. Temo il compleanno dei 30. Quello dei 40 è un incubo. I 50 lasciamo stare.
Ad ogni modo oggi finisce ufficialmente il periodo del mio "risorgimento" (mi piace chiamrlo così) e mi sento in dovere di celebrare questa data con un nuovo post. 
E’ iniziato all’incirca quando è nato questo blog, un gelido mercoledì pomeriggio di febbraio, nel pieno dell’inverno più lungo che abbia mai affrontato. E termina oggi, un caliente martedì di luglio. In questi mesi, io e questo blog siamo cresciuti e cambiati insieme. Abbiamo cambiato stile e pensieri. Siamo stati malinconici e allegri, cinici e dolci, incazzati ed appassionati.
Abbiamo conquistato e conosciuto persone nuove, quasi sempre stupende. Talvolta abbiamo fatto anche emozionare, delle volte commuovere, delle volte sorridere, altre ridere di gusto. Insomma ci siamo fatti un po’ amare, a modo nostro.
Grazie a questo blog e a tutte le persone che mi sono gravitate attorno per la prima volta dopo un sacco di tempo sono tornato a sentirmi me stesso, a sentirmi sereno, a sentirmi l’età giusta e sì, lo ammetto, anche a piacermi e a sentirmi bene come quando avevo sedici anni.
Ora è arrivato il momento di chiudere questa fase, e di partire, seppur per poco. Partire per una Spagna che si trova sempre lì, lontana, ma nemmeno così tanto, esattamente come le cose che voglio conquistare, che sembrano sì sfuocate come gli orizzonti dell’Andalusia, ma tutto sommato nemmeno così inarrivabili.
Poche ore mi separano ormai da quelle strade dense di risposte alle mie domande esistenziali. Strade di fuoco, in grado di seminare le paure che mi hanno attanagliato, e le poche che rimarranno qui pronte per quando torno, speriamo si rompano i coglioni ad aspettarmi e se ne vadano da qualcun’altro.
Vi saluto e vi do appuntamento a presto. A voi, e a tutte le cose che lascio qui in sospeso.
Tornerò presto con altri post, altre storie, altre cose da fare, forse qualche risposta, e le idee un po’ più chiare. Tornerò carico e pronto per altre storie da vivere, persone da conoscere, da appassionarsi, da farsi sorprendere, progetti da portare avanti, sogni da realizzare, problemi da affrontare, posti da vedere e poi... 

e poi mille altre cose ancora...

giovedì 18 luglio 2013

La Libreria del Secondo Piano


Calendario alla mano, sono diciannove giorni che non scrivo.
Un’eternità se paragonata alla fecondissima produzione dei primi mesi di vita di questo strampalato blog.
Ma cosa volete, gli impegni si infittiscono e come i negozi, anche il mio blog tira giù la serranda e fa orario estivo: “torno fra qualche giorno”, “Aperto solo il mercoledì”, “Chiuso per ferie”.
C’è chi attribuisce la mia assenza dalla scena alla mia cancellazione da facebook. Alcuni quando l’hanno saputo mi hanno guardato come se fossi diventato un eremita luddista andato a vivere in un monastero tibetano a contemplare le libellule che si posano sui fiori di loto. No ragazzi, semplicemente ho smesso di vedere scorrere sotto il naso i cazzi di tutti.
la mia cancellazione da facebook, tuttavia, andrà a scremare ulteriormente la mia schiera già piuttosto esile (ed esule talvolta) di fan. I pochi che resisteranno li considero degli eroi, irriducibili ed accaniti highlander che, non ho ancora capito bene perché, professano uno sconfinato amore per me e per le boiate che scrivo.
Ma la scomparsa di nuovi post non è dovuta ad una qualche fantomatica forma di blocco della scrittore, anche perché ho in mente le storie per almeno altri cinque pezzi, ma più che altro al fatto che, tra una festa e un giro in barca, tra un’appalto del verde e un serramento da imbiancare, tra una vacanza da organizzare e una fanciulla da corteggiare, ogni tanto, certi periodi, entro anche io nel fantomatico periodo degli esami e sì, capita pure che studio. Poco, ma studio.

Nel periodo di esami, al mio interno, si svolge un'estenuante battaglia senza esclusione di colpi fra il bene e il male, una guerra tra il giusto e lo sbagliato, fra il concesso e il proibito.
Da quando ho iniziato l’università, affronto lo studio in maniera contrastante. 
Capitano infatti giorni in cui faccio compiere ai libri da studiare estenuanti viaggi da un luogo all’altro sperando di trovare le condizioni perfette per iniziare a leggerli. Condizioni che, per i più svariati motivi, non si verificano mai. Trascorro le mie giornate come un pachiderma sdraiato sul letto a meditare, dilaniato internamente dalla guerra dei sensi di colpa e del senso del dovere contro la mia indole fancazzista e il mio istinto, ereditato forse da un’altra vita in cui credo fossi a capo di qualche tribù indigena in cui la mia unica preoccupazione era quella di mangiare e dire puttanate, attività appunto, nelle quali eccello in modo particolare in questi giorni.
Altri giorni invece, per compensazione, mi sveglio con la volontà e forza d’animo di Stakanov, il minatore sovietico da cui, dedurrete, è nato l’aggettivo stakanovista. In questi giorni mi rinchiudo in un ritiro spirituale ed interiore in cui le nozioni me le mangio a secchiellate, le bevo a botti di rovere e me le ignetto endovena a flebo. Non parlo, non saluto, a stento mi nutro.
Compongo una letteratura di schemi e schemini, sunti e riassunti, spunti ed appunti, che ho il potere di perdere nel porcile che si accumula in camera mia quasi con immediatezza, alcuni non vengono più ritrovati, mai più, probabilmente si smaterializzano, si autodistruggono come i messaggi che comunicavano ad Ethan Hunt di Mission Impossible la sua prossima missione, appunto, impossibile.
La sede di questi ritiri, solitamente, è la casa dei miei nonni, una sorta di tempio con un che di mistico, di soprannaturale, di magico.

E’ la casa dove sono cresciuto da bambino, nella quale ho anche vissuto stabilmente per un breve periodo, anni fa. Forse l’unico posto su questa terra che davvero sento e considero a pieno titolo casa mia.
Ogni volta che ci vado, mi domando perché ho lasciato passare così tanto tempo dall’ultima volta.
E’ una casa di due piani, con un sacco di stanze, ormai tutte vuote, e come in tutte le grandi case, ristrutturazioni di vecchie cascine lombarde, si respira la storia dei propri avi, si percepisce a tratti, qualche sprazzo di vita di ottant’anni fa. Il vecchio garage dove una volta vivevano le bestie, le camere tutte comunicanti con lo scalone al centro, il cortile bloccato dalla strada che conduce alla fabbrica dove molti degli uomini che abitavano la zona (compreso mio nonno) vi andavano a lavorare, ogni giorno, spesso anche la domenica, senza mai lamentarsi (così mi raccontano, e non faccio fatica a crederci).
Al secondo piano c’è una piccola libreria, con una serie di vecchi libri di mia madre, suppongo comprati in un periodo che va da poco prima che nascessi fino a quando ci siamo trasferiti, all’età di dieci anni.
Nel trasloco non portammo via tutto e certi libri rimasero dov’erano, a prendere polvere, quella pochissima, a dire il vero, a cui mia nonna concede l’onore di posarsi. 
Sono lì da anni, dimenticati, a riposare, soli, a custodire le proprie storie, con cura tra le pagine ingiallite.
Nelle mie pause dallo studio matto e disperatissimo, durante gli anni, mi sono sempre divertito a guardare quei libri. La prima volta che scorsi i cinquanta libri presenti, mi ricordo che notai che conoscevo forse un paio di autori al massimo tra quelli sugli scaffali, non di più. Presi uno di quei libri che conoscevo, era "Il piccolo principe". Lo rilessi tutto in un paio d’ore, e me lo portai a casa. 
"E' un peccato che rimanga lì" pensai.
Da allora rifeci la stessa cosa, ciclicamente, ad ogni sessione di esami. Cercavo qualche libro nuovo da leggere, di autori che conoscevo, che nel frattempo avevo scoperto per qualche motivo. E sempre, giuro, dico sempre, trovavo qualche libro di autori che poche settimane prima mi aveva consigliato qualche amico, o di cui avevo visto un’intervista, o mi aveva colpito per un qualche motivo.
Quando vidi Baricco, una sera, da Fazio, pensai subito che fosse un genio. La sessione dopo di esami, la magica libreria, mi servì su un vassoio argentato “Castelli di rabbia” e “Seta”. Li divorai, e lui, dopo il primo capitolo che lessi diventò il mio autore preferito.

L’ultimo che ho trovato è “Due di due” di Andrea De Carlo, libro nominatomi non più tardi di un mese fa da un caro amico. “Lo prenderò in biblioteca” gli dissi, non è servito. 


Sarà la mia prossima lettura, tanto ora gli esami sono finiti. Proprio tutti questa volta. E anche la libreria, in effetti, piano piano si sta svuotando quasi del tutto. Arriverà un giorno che non rimarranno più altri libri da scovare, e forse, sarà il giorno in cui non avrò più esami da superare, non ci saranno più sessioni da oltrepassare, non avrò più nulla da imparare da quella libreria. 
E forse, sarà il giorno in cui il bambino che torno quando metto piede in quella casa, sarà pronto per andarsene via da solo...per tornare solo quelle volte in cui avrà voglia di sentirsi veramente a casa.