giovedì 31 ottobre 2013

La Paura Secondo Sam (e gli altri nove)



Sam Raingivitz nasce il 23 ottobre 1959 a Franklin, Michigan, il quarto di cinque figli di una famiglia di antenati ebrei, alcuni dicono provenienti dall’Ungheria, altri dalla Polonia. Fin da ragazzino si appassiona al cinema, complice il padre, tanto che, già all’età di undici anni gira il suo primo cortometraggio. A tredici anni ricevette il regalo che più desiderava al mondo: una cinepresa, con la quale, nel corso della sua adolescenza girò diversi cortometraggi. Arrivata l’età del collage si iscrisse alla Michigan State University, dove conobbe nuovi amici, tra cui, un ragazzo di nome Bruce Campbell che, come lui, aveva una passione folle, travolgente, primordiale: il cinema. Iniziarono a scrivere e girare cortometraggi in super 8, fino a quando, finalmente, riuscirono a trovare i soldi per produrre il loro primo lungometraggio, un film dell’orrore intitolato: La Casa.
Sam e Bruce girarono il film con un budget di 375 mila dollari. Quando Sam Raimi, venticinque anni dopo girò Spider-man 3, il budget a disposizione era di 350 milioni di dollari, mille volte tanto.
La casa fu il film che lanciò Sam Raimi, e uno dei pmigliori film horror di tutti i tempi. Il film venne presentato al festival di Cannes dove ricevette diversi apprezzamenti, un po’ per la novità introdotta da raimi di coniugare paura e sangue a dei toni più farseschi, un po’ per l’uso sconsiderato e angosciante della macchina da presa, il tutto condito da effetti speciali fatti praticamente tutti artigianalmente: il sangue era composto da uno sciroppo americano di nome Karo, un latticino e un colorante alimentare, si dice che la camicia di Bruce Campbell in una scena era talmente piena di sangue che si solidificò e si ruppe.
Sul set, Sam Raimi, come assistente alla regia ingaggiò un giovane ragazzo di nome Joel, meglio noto come Joel Cohen dei fratelli Cohen, alla sua prima esperienza sul set, ma questa, è un’altra storia.
Il film fu censurato in Germania e in Gran Bretagna venne etichettato come “video Nasty”, letteralmente “video osceno”. Io lo vidi a quattordici anni per la prima volta, uno dei primi film horror che abbia mai visto e probabilmente, il film che mi fece appassionare al genere.
Da quel giorno iniziai a vedere horror in continuaizione, la mia passione per il cinema nacque così. Dopo anni finalmente, sono pronto a stilare la mia personale classifica partendo proprio da:

#10:_La Casa, Sam Raimi, 1981

#9_Saw, James Wan, 2004
Diciamo la verità: non so se si merita davvero di essere tra i primi dieci, molto probabilmente ci sono film che lo meriterebbero decisamente di più.
Tuttavia, il film è probabilmente il miglior film horror degli ultimi dieci anni, e per questo, merita di essere menzionato. Ha il pregio di avere una storia per nulla banale e di rendere partecipe lo spettatore della disperazione e del senso si impotenza dei protagonisti. Tensione alta, paura, angoscia, trama intricata e un finale a sorpresa sono gli ingredienti che tengono incollati allo schermo senza noia. Seguiranno altri 4 film, dal secondo niente male verso la bassa qualità, forse comunque la saga horror migliore degli ultimi anni.

#8_Scream, Wes Craven, 1996
Film di metà anni '90 firmato Wes Craven, mostro sacro nonché maestro di genere. È una sorta di parodia di tutti gli horror girati fino ad allora, gioca sui cliché che compongono i film horror.
Mostra a tutti come comporre la paura, come generare la tensione, dimostrando al pubblico quanto li risulti facile. Smaschera meccanismi scenici giocando con l’audio e le inuqadrature per generare il terrore. Di fatto tira le fila degli horror degli ultimi trent'anni e per fare ciò usa lo stratagemma di inserire all'interno della storia dialoghi con lunghe discussioni e dibattiti su film storici come halloween o Nightmare (girato dallo stesso Craven.)
Citazioni, allusioni e omaggi ad ogni scena.
La maschera dell'assassino è ripresa dall’urlo di Munc,  infesterà le feste di halloween dei successivi quindici anni.

#7_Shining, Stanley Kubrick, 1980
Horror del regista probabilmente più famoso di tutti i tempi: Stanley Kubrick.
La paura qui si manifesta sotto forma di claustrofobia e di follia che scaturisce da essa. Jack Nicholson sfodera una delle interpretazioni migliori della sua carriere incarnando la follia omicida, e prima ancora la metamorfosi di un padre premuroso in carnefice impazzito.
Nasce l'inquadratura che si muove a terra, dal punto di vista del triciclo del bambino che si muove nei labirintici corridoi dell'albergo, metafora, dico io, del labirinto della mente, di come ci si possa perdere dentro e di cosa essa riesca a celare.
I silenzi contano più dei dialoghi, e le facce di Nicholson ricreano il terrore puro.

#6_Il Silenzio degli Innocenti, Jonathan Demme, 1991
Poche interpretazioni nella storia del cinema (non solo horror) sono risultate essere tanto perfette ed immedesimate come quella di Antony Hopkins nei panni del cannibale dottor Hannibal Lecter.
La sua interpretazione basterebbe a giustificare l'apprezzamento del film anche se, tuttavia, non si basa solo su quello.
Fin dalle prime scene si delinea come il mondo sia cattivo e quanto male ci sia al suo interno, tanto che contagia tutti, anche chi dovrebbe rappresentare il bene, al punto che a tratti Lecter sembra quasi il buono, in una assurda lettura ribaltata della realtà che si insinua in chi guarda scena dopo scena.
Starling sembra che lo voglia combattere da solo quel male, lei donna sola in un ambiente altamente maschile. Sembra che voglia riuscire a combattere il mondo per sconfiggere alcuni fantasmi del suo passato che ancora si agitano.
È la follia il motivo scatenante della paura, non si sa bene da dove arrivi la tensione, ma c'è. La violenza é poca ma per tutto il film rimane un senso di paura dovuto alla canalizzazione del male del mondo impresso nei personaggi. È la frustrazione la miccia, accesa dalla follia che, Lecter, suggerisce all’agente Starling essere la chiave per risolvere il caso e riuscire finalmente così, a non sentire più urlare gli agnelli che tormentano le sue notti.
Scena finale nel marciume nascosto, nel sotterraneo, quasi fosse il covo del male del mondo, buio, sporco. La camera infrarossi e il braccio di Starling che trema mentre si sente il respiro. Angosciante.
Cinque premi Oscar, tra cui miglior film 1991

#5_It, Tommy Lee Wallace, 1990
L'immaginario della paura si viene a costituire fin da quando siamo bambini, fin dai primi istanti di vita. É una cosa che accomuna tutti, soprattutto da bambini. La paura del buio, la paura di rimanere soli, la paura del male. E quando questo terrore si manifesta sotto le sembianze di ciò che normalmente è invece una figura rassicurante e divertente, come un clown, la paura raddoppia.
Io che amo vedere duplici significati ovunque non posso non vedere l'allusione al fatto che molte volte ciò che noi riteniamo rassicurante è in realtà quello che dovremmo temere, come la periferia americana noiosa e tranquilla nella quale è ambientato il film, superficialmente corretta in tutto e per tutto ma con un lato oscuro nascosto terrificante. E quando ci si scontra con una paura del genere l'unica soluzione é affrontarla e distruggerla o andrà avanti a perseguitare per tutta la vita, come i bambini inseguiti da Pennywise, costretti a ritornare per combattere il mostro che non avevano vinto durante la loro infanzia condannandoli di fatto ad un'esistenza mai realmente tranquilla.
Tratto da un romanzo di Stephen King.

#4_Halloween, John Carpenter, 1978
Discorso simile per Halloween, altro film a budget irrisorio che ha avuto un successo enorme.
Mike Myers è un assassino che uccide senza un benché minimo motivo apparente in una tranquilla cittadina della periferia americana dove vale tutti quello appena detto per It.
È rappresentato vestito completamente di nero e la faccia bianca, asettica, dove non esistono espressioni, si dirà di Myers che sia un uomo incapace di provare emozioni di qualsiasi genere.
Perché non é la rabbia che spinge Myers ad uccidere, ma è semmai la frustrazione, la sua incapacità di incanalare le sue pulsioni, da quelle sessuali a tutte le altre, in un qualcosa che diventi emozione.
È il male assoluto, quello che esiste, appunto, senza un motivo logico e di conseguenza, più difficile da fermare.
Le inquadrature da fuori le finestre di Myers sono da pelle d'oca.


#3_Nightmare, Wes Craven, 1984
Anche qui vale il discorso fatto per It e Halloween, con però un'ulteriore componente. Qui l'uomo nero non è reale, o meglio: esiste nel momento in cui ci si creda, si nutre della paura stessa. È la paura per Freddy a dargli vita, una concezione quasi parente della fisica quantistica per cui una cosa é reale nel momento in cui la si osserva o, in questo caso, quando ci si crede e quindi la si vede là dove si crea l’immaginario di ciò che si crede, ovvero, nei sogni.
Freddy é il male e attacca vigliaccamente , nel momento in cui si è più vulnerabili, nella notte, nella mente di chi si addormenta, trasformando i sogni in incubi nei quali si può venire uccisi.
Fa paura anche perché è orribile ma, diversamente dagli altri mostri, ha una componente ironica, cosa che rende il male anche seducente.
Incipit di una delle saghe horror migliori di sempre nonché film cult per un’intera generazione.

#2_Profondo Rosso, Dario Argento, 1975
In una classifica di film horror fatta da un italiano, non nominare Dario argento è, per rimanere in tema, un crimine mortale. Ma la componente patriottica, in questo caso, non è quella che determina la sua posiziona sul podio. Si perché il film é di una qualità assoluta per diverse ragioni:
Sicuramente la trama, intricata, ricca di colpi di scena, circolare. Si sospetta di tutti e si sospetta di nessuno.
È un horror, più thriller, più giallo, con alcuni attimi anche decisamente crudi dei quali però il regista non abusa.
Ma i punti forti del film sono fondamentalmente due: il famosissimo gioco di specchi, cioè una scena del film in cui si vede specchiato il volto dell'assassino, un frammento di tempo in cui è racchiusa tutta la soluzione del film; e la colonna sonora assolutamente angosciante sufficiente ad alzare a livelli esorbitante la tensione in alcune scene, una fra tutte quella in cui il protagonista scopre il disegno sul muro della vecchia casa. Colpo di scena finale.
Caposaldo dell'horror italiano, anche se non tutti concordano che sia il migliore si Dario Argento. Io invece si.

#1_L’esorcista, William Friedkin, 1973
Se dovessi trovare un motivo per cui mettere L'esorcista al primo posto basterebbe raccontarvi degli innumerevoli fatti inspiegabili accaduti sul set durante le riprese e il montaggio, come per esempio la frattura del bacino capitata alla madre di Regan quando la bambina, posseduta, la spinge a terra: l'attrice urla davvero per il dolore.
Se lo uniamo al fatto che il film presenta una regia e una sceneggiatura di estrema qualità ecco che, obiettivamente non può non vincere.
Presenta caratteristiche differenti da molti horror qui elencati. Dialoghi distesi, silenzi, che si accostano alle scene incalzanti che si presentano ad intervalli regolari.
Si ha tempo di affezionarsi alla protagonista e di partecipare al dolore e allo sbigottimento della madre, alla sua inconsapevolezza, allo sconforto nella quale entra di fronte al progressivo peggioramento della figlia posseduta. E nel momento in cui ci si affeziona arriva la paura, lo schifo, l’angoscia prodotta dall’impotenza di fronte a fatti che per natura, noi terreni, non possiamo controllare.
Musica angosciante a condire attimi di ansia.
Scena finale da manuale in cui non si ha tanto paura per quello che succede, ma per quello che a cui rimanda quella paura. La paura del demonio, della morte, della perdizione dell'anima, forse in ultima analisi, la paura più grande che ci sia semplicemente per il fatto che nessuno può dimostrare empiricamente che non sia fondata.

Felice Halloween, e buona visione.



mercoledì 23 ottobre 2013

Il Bambino con i Denti da Coniglio


Ho iniziato a seguire il calcio nel 1998, sul finire di una domenica pomeriggio d’ottobre, all’età di otto anni, mentre giocavo con mia cugina e la tv era accesa. Il novantesimo minuto stava mostrando i goal del pomeriggio, le immagini e le parole stavano scivolando per la stanza, come ogni domenica, senza che io le dessi importanza, troppo preso a montare e smontare piccoli edifici di lego, a cercare pezzi e a portare avanti il mio grande sogno di realizzare un’intera città fatta appunto, di lego, forse in ultima analisi, motivo di fondo che mi ha portato, undici anni dopo, ad iscrivermi alla facoltà di architettura.
Quel giorno però l’euforia era tanta, lo si sentiva dalla voce del telecronista che raccontava i goal della giornata, tanto che mi costrinsi a dare un’occhiata alle immagini che passavano alla tv, e quello che vedi fu un ragazzo pelato, con una casacca nero e azzurra dribblare due difensori e segnare, accarezzando il pallone con il piede come se avesse una piuma attaccata alla gamba, un movimento istintivo, naturale, silenzioso.
Fu uno dei primi goal di Luis Nazario de Lima, in arte Ronaldo, in ancora più arte “il fenomeno”, e quella fu la prima Inter che tifai. Era l’inter della stagione ‘97/98, quella appunto di Ronaldo, Zio Bergomi, Djorkaeff, Zamorano e un giovane Zanetti, destinato a diventare il capitano che tutti conosciamo, quella di Simoni in panchina, una delle 18 di Massimo Moratti come presidente, e quell’anno, come spesso accaduto nella storia, faceva i conti con una delle prime Juventus di Del Piero, Lippi e Zidane.

Mi appassionai al calcio perché per un bambino italiano di otto anni sembrava proprio indispensabile, era come entrate in enorme grande clan dove tutti avevano il diritto di affermare e contraddirsi. E fu grazie ad un ventenne pelato con i denti da castoro, io che allora ero un bambino rasato con i denti da coniglio, tanto che la gente, da subito, mi associava a Ronaldo, come del resto tutti i bambini con il codino erano associati a Roberto Baggio. Ricordo che amavo questa cosa, era il mio idolo incontrastato, anche se i miei piedi avevano le sembianze di due ferri da stiro e a giocare a calcio proprio non ero capace.
Inizia quindi a giocare a basket, dove invece qualche soddisfazione riuscivo a togliermela, ma continuai a seguire il calcio e a tifare inter sempre con maggiore energia.
Ricordo la prima volta allo stadio, con mio padre, come fosse ieri. Inter-Atalanta 4-0. E’ impresso indelebile nella mia memoria quel momento quando mi trovai il campo davanti, dall’alto del secondo anello,  tutta quella gente intorno che urlava e cantava, e io lì dove volevo essere. Anche ora che allo stadio ci entro solo per andare ai concerti, ogni volta, per un attimo penso a quel giorno di quindici anni fa.
Nonostante l’enorme passione che cresceva di anno in anno, di partita in partita, la mia infanzia calcistica fu un vero e proprio disastro. L’inter del ’98, di Ronaldo e Simoni vinse una coppa Uefa, nella storica finale del parco dei principi a Parigi, ma perse il campionato con quel famoso rigore nella decisiva partita con la Juventus. Come finì è storia nota.  Ma non importava, in molti credevano che l’inter stava per iniziare un ciclo di successi destinato ad essere duraturo. Stocazzo.
Gli anni seguenti furono incubi che devastarono i miei sogni di giovinezza. Il ginocchio di Ronaldo cedette, Simoni venne esonerato, arrivarono promesse di fenomeni destinate a scomparire nell’arco di un mese e delusioni a ripetizioni che avrebbero stroncato qualsiasi appassionato. Erano gli anni in cui, a giugno, ogni tifoso interista aveva il sorriso da un orecchio all’altro perché sapeva che sarebbe arrivato qualche nuovo grande campione. Ad ottobre eravamo già più o meno tutti convinti che non sarebbe durato fino a giugno.
Maturai in quegli anni il concetto che una squadra di calcio è come una donna bellissima della quale sei perdutamente innamorato, con l’unico difetto di essere un po’ troia: ti riempie di corna a non finire ma tu sei sempre disposto a perdonarla.

L’inter delle mie scuole medie fu talmente penosa che iniziai a leggere delle storiche inter del passato, così, giusto per capire perché cazzo ancora insistessi. Lessi dell’inter di Papà Angelo, e imparai a memoria la formazione che vinse la prima coppa dei campioni, che come una cantilena ripetevo ogni sera prima di addormentarmi. Sì, al posto delle preghiere, andrò all’inferno.
Lessi della sua fondazione: l’inter nacque il 9 marzo 1908 da 44 dissidenti che abbandonarono il Milan perché non faceva giocare gli stranieri. L’ispiratore fu un certo Giorgio Muggiani, definito dalle cronache come un pittore e artista bizzarro, che celebrò la fondazione con queste parole: “Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo”. Nessuno sa quando la storia finisca e quando inizi la leggenda.
Il culmine delle delusioni arrivò il 5 maggio del 2002. Scudetto perso all’ultima giornata, anzi, gli ultimi quarantacinque minuti. Avevo atteso quattro anni quel giorno e tutto si spense in quarantacinque minuti, Ronaldo, alla sua ultima con la maglia neroazzura, la testa china, e delle lacrime che scendono. Saluterà tutti direzione Madrid un mese dopo.
Tutto da rifare un’altra volta, tutto da capo. Perché il calcio, avevo imparato, era così. Ogni anno, a maggio finisce, ma puoi sempre aspettare la prossima stagione, dove si parte tutti sempre da zero. La trovavo una cosa abbastanza rassicurante.

Iniziai le scuole superiori, il liceo a Gavirate, e la situazione non accennava a migliorare. Ogni anno sempre la stessa storia. Sembrava gravasse una maledizione. Nel mentre, il mio interesse per il calcio, complici gli insuccessi, scemava leggermente per far posto un altro grande interesse che, avevo scoperto essere indispensabile avere: le donne.
Il 2006 fu la svolta. Arrivò calciopoli che come un tornado rovesciò il mondo del pallone, riscrisse gerarchie, confermò sospetti fino allora sussurrati. Iniziò finalmente il ciclo dell’inter, anche se tutto era avvenuto probabilmente troppo tardi, non ero più un bambino da tempo, e nemmeno come me l’ero immaginato anni prima.
Arrivarono i tempi di Mancini, degli scudetti vinti contro le armate di Totti. Si vinse tanto, certo, ma solo una volta la gioia fu incontenibile. La Champions del 2010, seguita passo dopo passo dagli sgabelli del Suve che, in quelle sere, raccoglieva frotte di juventini repressi. La finale la vidi in piedi, dopo tre giorni di ansia pre-partita. Il pranzo di sabato non mangiai. Ricordo però che in fondo, anche se nessuno osava dirlo, eravamo tutti sicuri che questa volta avremmo vinto noi, questa volta finalmente, quella gran puttana non mi avrebbe tradito. Nell’intervallo andai dove lavorava Ziopera, interista come me, che quella sera non poteva assistere all’evento che aspettavamo da anni: “1-0 Ziopera, vinciamo noi, Milito. Questa volta la portiamo a casa.” Mi sorrise. Forse bestemmiò dalla gioia, non ricordo, ma è presumibile.
Vincemmo 2 a 0. Facemmo il triplete, e con quello, finalmente, i giorni che avevo tante volte sognato arrivarono, anche se, purtroppo, un po’ fuori tempo massimo.
Dopo quella sera cambiò tutto.
Non riuscì più a seguire il calcio allo stesso modo, a metterci la stessa passione. Affiora ogni tanto quando gioca la nazionale, ma più per voglia di festeggiare con gli amici che per pura passione sportiva.

Seguo ancora il calcio, ma più per questioni legate ad altri giochi che per amore per l’inter. Anche perché penso che l’amore incondizionato per una squadra di calcio sia in effetti una cosa da bambini.
In questi anni ho sempre cercato di guardare il calcio con lo sguardo che avevo da bambino, quello che ti permette di dimenticarti che mondo schifoso sia diventato oggi il pallone, che ti permette di credere che qualche valore sia rimasto. I bambini delle volte, è come se avessero un filtro, con il quale riescono a vedere sole le cose belle, in questo caso, che li permetta di vedere solo lo sport, e nient’altro.


E’ di pochi giorni fa la notizia che Moratti ha venduto la sua inter, la sua creatura ormai maggiorenne come l’hanno definita i giornalisti. L’ha lasciata andare dopo averla coccolata forse troppo in questi anni, come fa un padre troppo indulgente con una figlia indisciplinata (e un po’ troia, torno a ripetere)
Ho accolto la notizia con uno stato d’animo strano: né con disperazione, ma nemmeno con indifferenza. Forse perché dietro al fatto che cambi un presidente di una squadra di calcio, questa volta, per me, c’è molto di più.
Certi periodi nella vita finiscono da soli, ma quando poi ci si ripensa si rimane interdetti per un attimo. Voglio dire, io non mi sento più un bambino da anni, ma il fatto che c’era l’inter di Moratti mi ricordava quando invece lo ero. Era come se ci fosse una macchina del tempo che istantaneamente riposrtasse a quei giorni dove tutto era più semplice. E ora che non c’è più mi accorgo che è tutto finito.
Ronaldo si è ritirato, ora gioca a poker ed è ingrassato come un maiale, Simoni non allena forse più, sono passati nel mio cuore calcistico campioni che hanno fatto i campioni e altri che hanno fatto i bidoni, più sconfitte che vittorie senza dubbio, più delusioni che soddisfazioni, ma non me ne vergogno, anzi, perché fare il tifo per quelli che vincono sempre è troppo facile, e il vero sportivo si vede quando perde.

Arrivederci presidente, le dico la verità, non la ricorderò né come un modello né come un profeta, la mia vita ora che ha lasciato l’Inter andrà avanti nello stesso identico modo e credo sinceramente che lei non mi mancherà, ma la ringrazio per avermi dato qualcosa per cui appassionarmi e sperare quando ero piccolo e anche perché, tutto sommato, ci ha fatto divertire.



mercoledì 2 ottobre 2013

L'Odore dell'Asfalto Bagnato


Le città sono invisibili, non perché non ci siano, 
ma perché nascondono sempre un qualcosa che ai nostri occhi sfugge sempre.

Italo Calvino, Le Città Invisibili


Esistono viaggi che nascono per caso. Di solito sono quei viaggi a cui inizialmente non si da molto peso, a cui non si pensa molto i giorni prima della partenza, che solitamente viene improvvisata, organizzata la notte stessa, con quel pizzico di “ma che poi che cazzo ce ne frega” che come un po’ di sale va ad insaporire qualcosa che, diversamente,  correrebbe il rischio di risultare insipido e senza nervo.
I viaggi che capitano per caso, molto spesso, risultano splendidi. 
Forse un po’ perché non si hanno grandi aspettative, un po’ perché li facciamo capitare quando realmente ne abbiamo bisogno, senza che nemmeno ce ne accorgiamo. 
Ci vuole poco in effetti, una macchina, due soldi per le spese, una scusa, e un paio di amici che ti seguano. 
La macchina non è stato difficile rimediarla, i due soldi un po’ di più, la scusa era a prova di bomba (al punto che forse tanto scusa non era) e due amici bè, quelli ci sono sempre.

Questo weekend a Trieste si è svolto il Trieste Next, il salone europeo della ricerca scientifica, chiamato più amichevolmente da noi: un alibi perfetto. Anche perché  in effetti a veder bene, non so cosa potessero trovarci in quest’evento un neo architetto (yep) con la passione per il cinema, la musica e la scrittura, e due economisti con la passione per le vespe (soprattutto gli specchietti, non chiedetemi perchè) e le cinquecento. 
Ma qualcosa abbiamo trovato, fin dal pomeriggio della partenza, fermandoci per una sosta a Lignano, la città dove da ragazzini passavamo le nostre estati, senza che ci conoscessimo ancora, in quelle vie fantasma dove solitamente si stipano orde di vacanzieri che si muovono come formiche in un labirinto. E poi in spiaggia, assopita, addormentata, come una nave che attracca in porto e sa che per un po’ si riposerà. E come al solito, quel nulla che non aspetta altro che essere riempito dalle risate e dalle frasi di tre ventenni che camminano lungo la spiaggia, ancora una volta, inspiegabilmente, rapiti dalla meraviglia del mare. 
Si risale in macchina per l’ultimo tratto, con la musica rigorosamente alta, tanto qui, oggi, nessuno ci dirà di abbassarla. 
La costa che precede Trieste è disseminata di scorci e castelli, che decidiamo di visitare un minuto prima della chiusura, rimanendo così intrappolati nel cortile da un cancello, che per fortuna, scopriamo stare al passo coi tempi tanto che nel corso degli anni si è dotato di una meravigliosa fotocellula che fa spalancare le sue braccia al nostro passaggio, mentre noi già immaginiamo che per mangiare qualcosa, se fossimo rimasti chiusi dentro, avremmo dovuto chiamare qualche cinese in città, e probabilmente, avrebbe fatto parecchio ridere la sua faccia alla nostra richiesta: “si si ci lanci tutto oltre il muro di cinta, prenda una bella rincorsa però”.
Incipit questo, di giornate pazzesche, che a raccontarle non ci si crede, e infatti non lo farò. 
Certe suggestioni e certe storie uno se le vuole conservare, e non condividere con nessuno.





E’ incredibile come nelle città riesca ad ambientarmi subito. Imparo due o tre strade per i punti che mi interessano, e nelle altre mi perdo, cercando di non ricordarmi da dove sono venuto, in modo che ogni volta sia tutto una sorpresa. Io penso che le città abbiano un tempo limite nel quale si possa vivere, e questo tempo va dal giorno che si rimane veramente colpiti da qualcosa, a quello in cui si passerà davanti a quella stessa cosa senza accorgrsene nemmeno. Quello è il momento giusto per andarsene. 
Tuttavia, in quel periodo di tempo in cui la si abita, la città, non la si può davvero conoscere, secondo me, se non si scova il suo odore. Ognuna ha un’odore diverso. 
Pensate a Londra, l’inconfondibile odore di fast food e cibo di merda cotto nelle bancarelle sulle strade. O l’odore di mare, di porto, che impregna Venezia. L’odore di storia, a Roma. L’odore di nocciole ad Alba. L’odore del freddo a Copenaghen. Chissà che odore deve avere New York, o Buenos Aires, o Palermo, o…



Ancora non ho ben capito come succeda, ma sempre, nel momento in cui ti allontani da qualcosa che ti tormenta o ti assilla, si riesce a valutare il problema e disegnare le possibili soluzioni. Poi quando torni però sei punto e a capo.
Le città poi, io credo, non sono abitate da persone, ma da soluzioni. Sono abitate da vite che potresti avere. Domani mi trasferisco qui e vado a pulire le navi da crociera quando si fermano al porto. Torno a casa a piedi, tra le vie ben definite della città. Vago nella notte, ad orari improponibili, per vedere piazza Unità vuota e sentire il rumore del mare. Poi aspetto che mi svegli il frastuono delle stoviglie dei bar che si affacciano su di essa, gettati velocemente nel lavandino stracolmo. Ogni giorno passo davanti ad un portone di legno, molto alto, e vedo dalla strada una finestra accesa. Prima o poi suonerò a quel citofono, ma non riuscirò a dire nulla, fino a quando non attaccheranno, dall’altra parte. Allora aspetterò qualche secondo, per vedere se qualcuno si affaccia. Non aspetterò tanto però. Avevo un’altra vita in cui ho aspettato abbastanza. 
Pensavo a questo, domenica mattina, mentre giravo da solo per le vie della città, una delle cose che più amo fare al mondo: vagare in mezzo gente che non conosco. Pensare che ognuna avrebbe almeno una storia da raccontare. Infatti non sono uomini e donne che camminano, anzi forse sbagliavo, non sono nemmeno soluzioni, sono solo storie.
Camminavo, immerso, negli odori della città, provandoli tutti:
Pane tostato. Ragù. Fumo dei tubi di scappamento. Vento. Copertoni bruciati. Mare. Salsedine. Fogna. Libertà. Soffritto. Immondizia. Caffè. Piscio di cane. Tempo. Bicchieri di bianco. Foglie. Kebab. Pietra. E poi eccolo, finalmente, l'odore di Trieste,: L'odore dell'asfalto bagnato, dopo che non pioveva da settimane. 
L’ho riconosciuto quel profumo, uguale all’odore di quelle cose che mi hanno suggerito essere dei piccoli momenti di trascurabile felicità. L’odore di quelle persone che restano così poco che fin da subito abitano i tuoi ricordi. L'odore di quelle cose che non capitano da tanto, e ogni volta ti sorprendono per quanto siano belle, come un weekend tra amici che si conoscono poco, lontano da tutti.