domenica 9 giugno 2013

Africa 15

Da tempo il primo weekend di giugno ha smesso di essere una scadenza importante. Le sessioni di esami finiscono a fine luglio, e ad architettura i corsi non terminano mai prima della fine di giugno. Il campionato termina a maggio, ormai da anni, e le elezioni le fanno sempre in primavera, di solito ad aprile.
Il mio compleanno, persiste a rimanere nel pieno dell’inverno, nonostante le mie consuete lamentele.
Ma ieri, mi sono ricordato quando invece questo weekend era una delle scadenze più dolci che ci fosse, fino a pochi anni fa. A ricordarmelo, è stato mio fratello che lancia in aria la cartella con sorprendente energia disfando inutili libri e quaderni e corre a casa assatanato, posseduto dal demone dell’estate, urlando come se non ci fosse un domani che la scuola è finita.


Mi ricordo che provai una strana sensazione quando suonò l’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola dell’ultimo anno di liceo. Una roba strana. Finì tutto, in un attimo, che sembrava iniziato tutto il giorno prima, e invece, cinque anni erano trascorsi, come un fiume in piena, che nel suo scorrere aveva trascinato gioie, amori, desideri, sogni, aspirazioni, anni, voti, estati, amicizie.
Amicizie.
Lo sguardo delle persone con cui avevo condiviso tutto di quei giorni era meraviglioso, lo ricordo ancora, in maniera lampante.
Avevamo gli esami di maturità davanti, e sotto sotto, un po’ spaventati lo eravamo, ma sapevamo che gli avremmo affrontati insieme e questo ci tranquillizzava parecchio. Preparammo gli esami come si conveniva tra noi studenti modello, bagni al lago o in piscina, partite di ping pong, musica rock e parecchi film. Eravamo fatti così, e a dirla tutta, ancora lo siamo. Tante cose sono cambiate. Siamo cambiati noi, siamo più maturi (alcuni), più cresciuti, meno folli (non tutti), ma un po’ cazzari in fondo lo siamo ancora e lo saremo sempre.
Finimmo gli esami, e avevamo solo voglia di partire. Pensavamo solo a quello, e un po’ si, anche al futuro, ma non troppo.
C’era chi stava per partire, chi stava per iniziare un’università del quale non era convintissimo. Tutti comunque ci stavamo per imbarcare, in qualcosa di nuovo, senza vedere l’orizzonte molto da vicino.
Io, da lì a poco avrei dovuto provare il test per entrare ad architettura, dio solo sa se non l’avessi superato cosa diavolo avrei fatto.
Ogni nostro pensiero sul futuro, era decorato con un meraviglioso punto di domanda alla fine.

E’ strano come i ricordi affiorino, di fronte alle cose più impensate. Un giro in vespa su quella strada, un profumo, un paio di note di quella canzone. Affiorano, non si sa come. Tornano a casa da una lunga vacanza, ma dove siete stati tutto questo tempo? I ricordi, sono di miele. Dolci e speziati. Le prime feste, i primi amori. Le amicizie che sbocciano come nelle migliori primavere, e alcune, che stagionano, come i vini più buoni.
Ti sorprendono, freschi della memoria, nonostante sia passata una vita. Perché quei cinque anni di liceo, cazzo se sono stati belli.
Dal primo giorno del primo anno. Ci trovammo davanti un mondo impacchettato, come un regalo di compleanno, che eravamo ansiosi di scartare. Ma ci mettemmo cinque anni, e qualche mese, per togliere il fiocco e strappare la carta.
Le vacanze a Senigallia, il mondiale e l’estate del 2006, la grigliata a Gavirate, finita la scuola. Il viaggio a Londra e a Bath in giro in quelle vie fino alle tre di notte senza un apparente motivo logico. La raclette, in montagna, d’inverno, saltando il sabato e portando come motivazione sulla giustificazione: “pausa riflessiva in weekend alcolico”. I pomeriggi a giocare ai videogiochi, che tanto per domani non c’è un cazzo. In pullman, a decidere che gusti di gelato mettere nella vaschetta, oggi lo compriamo noi tranquilli. I pomeriggi a fare cortometraggi, quest’anno lo portiamo a casa il “Cuveglio film festival”, Ah bè, che culo! Praticamente ci sono gli oscar, Cannes, Venezia e poi Cuveglio. E comunque lo vincemmo, per due anni. In motorino, a cercare spiagge nuove, si ma aspettiamo Nerk col peugeot che è ancora a Taino. Ma domani interroga?, io mi giustifico, ma le hai finite…va be te ne presto una io.. va che mica sono intercambiabili pirla.
Le stronzate, quantificabili in sei, sette milioni, fatte in classe da me e dalla tribù di peggio asini che abbia mai avuto la fortuna di conoscere. Stronzate di cui non parlerò perché non sono così sicuro che siano già andate tutte in prescrizione.

E poi la Spagna. La poderosa, noi 5, settemila chilometri. Casa Paco, la cuenta, le tapas. il Boody sexy dei marocchini. La pioggia a Granada, solo noi cazzo la potevamo trovare. La spiaggia di Miami, non quella vera, con i suoi bocadillos ai gamberi. La conchiglia del cammino di Santiago, e tutta quella gente che in piazza alza la bicicletta, alcuni piangono dalla gioia. La playa de las catedrales. I semafori rossi di La Coruna. Il casinò di Estoril. I villaggi del Portogallo, annegati nel nulla. La strada che esce da Cartagena, che si snoda nel deserto, illuminta splendidamente da qualche stella. Quella costa azzurra di merda, quanto la odio. Gli occhi di quel vecchio senza un braccio che voleva affittarci un'habitation per la notte. Il verde della Galizia. La musica tamarra dell’Isla de Arousa che ci sveglia alle sette di mattina. La Paella di quella donna meravigliosa a Cabo de Gata. La spiaggia bianca, infinita, nel nord. Cabo Finisterre, e le sua scogliere. Cabo de Sao Vicente e la sua voglia di America. Lisbona e la voglia di salpare. Cabo da Roca, quando iniziammo a tornare indietro.
I momenti in macchina, in cui guardavo fuori dal finestrino, in silenzio, a vedere tutta quella vita scorrere, ad immaginare le storie della gente e dei paesi che incontravamo. A pensare ai loro futuri. A pensare al mio.
Il cartello di Tarifa, Africa 15 km.


Tutto questo sono stati quei cinque anni. E qualcosa ancora in più. Troppo difficile da scrivere, da raccontare, forse anche da ricordare. Quel qualcosa in più impossibile da trasmettere ma che tutti noi abbiamo ben saldo dentro e sappiamo cos’è, anche se è difficile dargli un nome.
Tutti noi, sparsi ormai, in giro, a prenderci il nostro futuro, che torniamo ogni tanto, a fare una colletta per comprarci tre pizze in sette e giocarci il resto a poker. Tanto poi vince sempre lui, c’ha culo.
Tutti, ognuno con altre campanelle, pronte a suonare per qualche altra ultima volta, ognuno ha le sue, di ultime volte, per farci fare un passo ancora, ognuno ha i suoi, di passi ancora.
Inizia a suonare anche per me un’altra campanella, ora che mi sto per laureare (si spera), e guardo a quei giorni con tremenda nostalgia, pur sapendo che, i ricordi, quelli belli, nessuno ce li porterà via. E io credo che nei momenti di buio che affronteremo, quando saremo immersi nella merda, salteranno fuori, come al solito da non si sa dove, da qualche strada, da qualche profumo, da qualche canzone o dal fondo di qualche bottiglia di birra, come amici fedeli, a farci fare una risata. E poi un’altra ancora.