Da tempo il
primo weekend di giugno ha smesso di essere una scadenza importante. Le
sessioni di esami finiscono a fine luglio, e ad architettura i corsi non
terminano mai prima della fine di giugno. Il campionato termina a maggio, ormai
da anni, e le elezioni le fanno sempre in primavera, di solito ad aprile.
Il mio compleanno,
persiste a rimanere nel pieno dell’inverno, nonostante le mie consuete
lamentele.
Ma ieri, mi
sono ricordato quando invece questo weekend era una delle scadenze più dolci
che ci fosse, fino a pochi anni fa. A ricordarmelo, è stato mio fratello che
lancia in aria la cartella con sorprendente energia disfando inutili libri e
quaderni e corre a casa assatanato, posseduto dal demone dell’estate, urlando come
se non ci fosse un domani che la scuola è finita.
Mi ricordo
che provai una strana sensazione quando suonò l’ultima campanella dell’ultimo
giorno di scuola dell’ultimo anno di liceo. Una roba strana. Finì tutto, in un
attimo, che sembrava iniziato tutto il giorno prima, e invece, cinque anni
erano trascorsi, come un fiume in piena, che nel suo scorrere aveva trascinato
gioie, amori, desideri, sogni, aspirazioni, anni, voti, estati, amicizie.
Amicizie.
Lo sguardo
delle persone con cui avevo condiviso tutto di quei giorni era meraviglioso, lo
ricordo ancora, in maniera lampante.
Avevamo gli
esami di maturità davanti, e sotto sotto, un po’ spaventati lo eravamo, ma
sapevamo che gli avremmo affrontati insieme e questo ci tranquillizzava
parecchio. Preparammo gli esami come si conveniva tra noi studenti modello,
bagni al lago o in piscina, partite di ping pong, musica rock e parecchi film. Eravamo fatti
così, e a dirla tutta, ancora lo siamo. Tante cose sono cambiate. Siamo
cambiati noi, siamo più maturi (alcuni), più cresciuti, meno folli (non tutti),
ma un po’ cazzari in fondo lo siamo ancora e lo saremo sempre.
Finimmo gli
esami, e avevamo solo voglia di partire. Pensavamo solo a quello, e un po’ si,
anche al futuro, ma non troppo.
C’era chi
stava per partire, chi stava per iniziare un’università del quale non era
convintissimo. Tutti comunque ci stavamo per imbarcare, in qualcosa di nuovo, senza
vedere l’orizzonte molto da vicino.
Io, da lì a poco avrei dovuto provare il
test per entrare ad architettura, dio solo sa se non l’avessi superato cosa
diavolo avrei fatto.
Ogni nostro
pensiero sul futuro, era decorato con un meraviglioso punto di domanda alla
fine.
E’ strano
come i ricordi affiorino, di fronte alle cose più impensate. Un giro in vespa
su quella strada, un profumo, un paio di note di quella canzone. Affiorano, non
si sa come. Tornano a casa da una lunga vacanza, ma dove siete stati tutto
questo tempo? I ricordi, sono di miele.
Dolci e speziati. Le prime feste, i primi amori. Le amicizie che sbocciano come
nelle migliori primavere, e alcune, che stagionano, come i vini più buoni.
Ti
sorprendono, freschi della memoria, nonostante sia passata una vita. Perché
quei cinque anni di liceo, cazzo se sono stati belli.
Dal primo
giorno del primo anno. Ci trovammo davanti un mondo impacchettato, come un regalo
di compleanno, che eravamo ansiosi di scartare. Ma ci mettemmo cinque anni, e qualche mese, per togliere il fiocco
e strappare la carta.
Le vacanze a
Senigallia, il mondiale e l’estate del 2006, la grigliata a Gavirate, finita la
scuola. Il viaggio a Londra e a Bath in giro in quelle vie fino alle tre di
notte senza un apparente motivo logico. La raclette, in montagna, d’inverno,
saltando il sabato e portando come motivazione sulla giustificazione: “pausa
riflessiva in weekend alcolico”. I pomeriggi a giocare ai videogiochi, che
tanto per domani non c’è un cazzo. In pullman, a decidere che gusti di gelato
mettere nella vaschetta, oggi lo compriamo noi tranquilli. I pomeriggi a fare
cortometraggi, quest’anno lo portiamo a casa il “Cuveglio film festival”, Ah
bè, che culo! Praticamente ci sono gli oscar, Cannes, Venezia e poi Cuveglio. E
comunque lo vincemmo, per due anni. In motorino, a cercare spiagge nuove, si ma
aspettiamo Nerk col peugeot che è ancora a Taino. Ma domani interroga?, io mi
giustifico, ma le hai finite…va be te ne presto una io.. va che mica sono
intercambiabili pirla.
Le stronzate,
quantificabili in sei, sette milioni, fatte in classe da me e dalla tribù di
peggio asini che abbia mai avuto la fortuna di conoscere. Stronzate di cui non
parlerò perché non sono così sicuro che siano già andate tutte in prescrizione.
E poi la
Spagna. La poderosa, noi 5, settemila chilometri. Casa Paco, la cuenta, le
tapas. il Boody sexy dei marocchini. La pioggia a Granada, solo noi cazzo la
potevamo trovare. La spiaggia di Miami, non quella vera, con i suoi bocadillos
ai gamberi. La conchiglia del cammino di Santiago, e tutta quella gente che in
piazza alza la bicicletta, alcuni piangono dalla gioia. La playa de las
catedrales. I semafori rossi di La Coruna. Il casinò di Estoril. I villaggi del
Portogallo, annegati nel nulla. La strada che esce da Cartagena, che si snoda
nel deserto, illuminta splendidamente da qualche stella. Quella costa azzurra
di merda, quanto la odio. Gli occhi di quel vecchio senza un braccio che voleva affittarci un'habitation per la notte. Il verde della Galizia. La musica tamarra dell’Isla de
Arousa che ci sveglia alle sette di mattina. La Paella di quella donna
meravigliosa a Cabo de Gata. La spiaggia bianca, infinita, nel nord. Cabo Finisterre,
e le sua scogliere. Cabo de Sao Vicente e la sua voglia di America. Lisbona e
la voglia di salpare. Cabo da Roca, quando iniziammo a tornare indietro.
I momenti in
macchina, in cui guardavo fuori dal finestrino, in silenzio, a vedere tutta
quella vita scorrere, ad immaginare le storie della gente e dei paesi che
incontravamo. A pensare ai loro futuri. A pensare al mio.
Il cartello
di Tarifa, Africa 15 km.
Tutto questo
sono stati quei cinque anni. E qualcosa ancora in più. Troppo difficile da
scrivere, da raccontare, forse anche da ricordare. Quel qualcosa in più
impossibile da trasmettere ma che tutti noi abbiamo ben saldo dentro e sappiamo
cos’è, anche se è difficile dargli un nome.
Tutti noi,
sparsi ormai, in giro, a prenderci il nostro futuro, che torniamo ogni
tanto, a fare una colletta per comprarci tre pizze in sette e giocarci il resto
a poker. Tanto poi vince sempre lui, c’ha culo.
Tutti,
ognuno con altre campanelle, pronte a suonare per qualche altra ultima volta, ognuno
ha le sue, di ultime volte, per farci fare un passo ancora, ognuno ha i suoi, di passi ancora.
Inizia a
suonare anche per me un’altra campanella, ora che mi sto per laureare (si
spera), e guardo a quei giorni con tremenda nostalgia, pur sapendo che, i
ricordi, quelli belli, nessuno ce li porterà via. E io credo che nei momenti di
buio che affronteremo, quando saremo immersi nella merda, salteranno fuori,
come al solito da non si sa dove, da qualche strada, da qualche profumo, da
qualche canzone o dal fondo di qualche bottiglia di birra, come amici fedeli, a
farci fare una risata. E poi un’altra ancora.