Pochi temporali fa.
Verso la fine.
La sveglia cadde, dal comodino,
provocando nella stanza un rumore sordo, netto, rotto.
Ruppe la notte, che rimase spaccata, divisa
a metà. Non suonò, che mancavano ancora tre ore.
Cadde, non suonò.
Svegliato, per così dire, smisi di
dormire, e forse, la sveglia, non era suonata, ma era caduta, per non far
troppo rumore, per concedermi una pausa dal sonno, che come ogni notte, non
stava portando a nulla di buono. Pieno di vuoto, come sempre, quel sonno.
Aprì la finestra, con gli occhi chiusi, e
la vista, addormentata, lasciò agli
altri sensi l’onere di constatare, senza riserve, che stava piovendo. Si
sentiva, si annusava, si toccava.
Mi si conceda di dire che la pioggia pioveva.
Pioveva in maniera rimessa, curata.
Pioveva un soffio.
Piano.
Sussurrava.
Quel tanto che bastava però per sentirla
dal letto, sdraiato, a sufficienza da bagnare i pensieri, da cullare le angosce,
e le paure, senza svegliarle, almeno loro, almeno per un po'.
Si poteva dire, senza correre il rischio
di affermare il falso, che la pioggia, in quei giorni, era educata e gentile.
Anche lei. Troppo gentile. Ma imperterrita.
Imperterrito piove, la pioggia.
Leggera, ma con una sua dignità.
Continua. Cadeva, la pioggia, non suonava, come le sveglie.
E non smetteva di lavarli, i pensieri,
che alla fine sembravano più lindi, smacchiati, e più chiari.
Aveva avuto il coraggio, la pioggia,
quella notte, davanti alla sveglia, di prendersi la colpa della mia insonnia,
coprendo la vera colpevole, che forse, quella pioggia, anche lei la stava
sentendo sfogarsi, con calma, quella notte.
Sommessamente.
Entrambe.
I pensieri erano ora più sottili, spogli,
nudi, ma l'acqua non basta, a sciacquarli del tutto, e bisogna fare piano, non
c’è da suonare, che le paure per un po' sono assopite, ma bisogna fare piano, è
un attimo che si destino, e se lo fanno ora, che è ancora notte, farebbero male,
per davvero.
Che però, vorrei essere anche io come la
pioggia, ma meno educato.
Suonerei, io, se fossi pioggia, se fossi
sveglia, se fossi sveglio.
Che se capita di vederla, perderei
qualche goccia, dalle mie mani, e scivolerebbero, come carezze, a rigarle le
guance, lacrime di nulla, per poi scomparire, infine, tra le sue labbra
semichiuse.
Il loro, delle gocce, stupendo destino.
Che se la trovassi, sarei uno scroscio di momenti felici, sarei una tempesta, di attimi senza fiato, suonerei, e non
cadrei, e sarebbe lei, allora, educata, e gentile.
Io pioverei forte.
Io sarei intenso, e magari anche a lei,
laverei i pensieri, che forse, sarebbero più chiari.
Che magari pur i suoi sono ostaggi, delle
subdole angosce, destate le sue, dal rumore che fa la pioggia nel temporale,
dal rumore che farei io, suonando, cadendo, piovendo, bussando, amando, che non
so entrare nelle vite in punta di piedi, io.
E magari, alla fine, si innamorerebbe
pure lei, della pioggia, e potremmo a quel punto ascoltarla in un letto,
insieme, e laverebbe le scorie, di una passione consunta, e rimarremo così, stropicciati,
intricati, affamati, e non la pioggia poi, ma il tempo, rapirebbe i sospiri, e gli
sguardi, e le parole, e le promesse, e quei sorsi di felicità a noi concessi;
il tempo, che sono sicuro, scorrere troppo veloce, a far suonare altre sveglie,
non sommesso né gentile, lui sì,
maleducato.
E in questo mercato di desideri
invisibili, mi trovai a dover conoscere, senza che l’avessi chiesto, la
crudeltà dell’evidenza, gocce di tempo e di carezze, imprigionate, invendute,
destinate forse, a non esplodere mai. Destinate a non piovere mai.
E infine la pioggia, seppur tranquilla,
piovve le gocce che spensero il fuoco, divoratore di sogni, che svuotò la notte
dal vuoto di cui era fatta e di quei pensieri, ormai bruciati, e arditi, fin
troppo, non rimase che cenere.
Sotto la pioggia.
Sempre imperterrita, ed elegante.
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