mercoledì 23 ottobre 2013

Il Bambino con i Denti da Coniglio


Ho iniziato a seguire il calcio nel 1998, sul finire di una domenica pomeriggio d’ottobre, all’età di otto anni, mentre giocavo con mia cugina e la tv era accesa. Il novantesimo minuto stava mostrando i goal del pomeriggio, le immagini e le parole stavano scivolando per la stanza, come ogni domenica, senza che io le dessi importanza, troppo preso a montare e smontare piccoli edifici di lego, a cercare pezzi e a portare avanti il mio grande sogno di realizzare un’intera città fatta appunto, di lego, forse in ultima analisi, motivo di fondo che mi ha portato, undici anni dopo, ad iscrivermi alla facoltà di architettura.
Quel giorno però l’euforia era tanta, lo si sentiva dalla voce del telecronista che raccontava i goal della giornata, tanto che mi costrinsi a dare un’occhiata alle immagini che passavano alla tv, e quello che vedi fu un ragazzo pelato, con una casacca nero e azzurra dribblare due difensori e segnare, accarezzando il pallone con il piede come se avesse una piuma attaccata alla gamba, un movimento istintivo, naturale, silenzioso.
Fu uno dei primi goal di Luis Nazario de Lima, in arte Ronaldo, in ancora più arte “il fenomeno”, e quella fu la prima Inter che tifai. Era l’inter della stagione ‘97/98, quella appunto di Ronaldo, Zio Bergomi, Djorkaeff, Zamorano e un giovane Zanetti, destinato a diventare il capitano che tutti conosciamo, quella di Simoni in panchina, una delle 18 di Massimo Moratti come presidente, e quell’anno, come spesso accaduto nella storia, faceva i conti con una delle prime Juventus di Del Piero, Lippi e Zidane.

Mi appassionai al calcio perché per un bambino italiano di otto anni sembrava proprio indispensabile, era come entrate in enorme grande clan dove tutti avevano il diritto di affermare e contraddirsi. E fu grazie ad un ventenne pelato con i denti da castoro, io che allora ero un bambino rasato con i denti da coniglio, tanto che la gente, da subito, mi associava a Ronaldo, come del resto tutti i bambini con il codino erano associati a Roberto Baggio. Ricordo che amavo questa cosa, era il mio idolo incontrastato, anche se i miei piedi avevano le sembianze di due ferri da stiro e a giocare a calcio proprio non ero capace.
Inizia quindi a giocare a basket, dove invece qualche soddisfazione riuscivo a togliermela, ma continuai a seguire il calcio e a tifare inter sempre con maggiore energia.
Ricordo la prima volta allo stadio, con mio padre, come fosse ieri. Inter-Atalanta 4-0. E’ impresso indelebile nella mia memoria quel momento quando mi trovai il campo davanti, dall’alto del secondo anello,  tutta quella gente intorno che urlava e cantava, e io lì dove volevo essere. Anche ora che allo stadio ci entro solo per andare ai concerti, ogni volta, per un attimo penso a quel giorno di quindici anni fa.
Nonostante l’enorme passione che cresceva di anno in anno, di partita in partita, la mia infanzia calcistica fu un vero e proprio disastro. L’inter del ’98, di Ronaldo e Simoni vinse una coppa Uefa, nella storica finale del parco dei principi a Parigi, ma perse il campionato con quel famoso rigore nella decisiva partita con la Juventus. Come finì è storia nota.  Ma non importava, in molti credevano che l’inter stava per iniziare un ciclo di successi destinato ad essere duraturo. Stocazzo.
Gli anni seguenti furono incubi che devastarono i miei sogni di giovinezza. Il ginocchio di Ronaldo cedette, Simoni venne esonerato, arrivarono promesse di fenomeni destinate a scomparire nell’arco di un mese e delusioni a ripetizioni che avrebbero stroncato qualsiasi appassionato. Erano gli anni in cui, a giugno, ogni tifoso interista aveva il sorriso da un orecchio all’altro perché sapeva che sarebbe arrivato qualche nuovo grande campione. Ad ottobre eravamo già più o meno tutti convinti che non sarebbe durato fino a giugno.
Maturai in quegli anni il concetto che una squadra di calcio è come una donna bellissima della quale sei perdutamente innamorato, con l’unico difetto di essere un po’ troia: ti riempie di corna a non finire ma tu sei sempre disposto a perdonarla.

L’inter delle mie scuole medie fu talmente penosa che iniziai a leggere delle storiche inter del passato, così, giusto per capire perché cazzo ancora insistessi. Lessi dell’inter di Papà Angelo, e imparai a memoria la formazione che vinse la prima coppa dei campioni, che come una cantilena ripetevo ogni sera prima di addormentarmi. Sì, al posto delle preghiere, andrò all’inferno.
Lessi della sua fondazione: l’inter nacque il 9 marzo 1908 da 44 dissidenti che abbandonarono il Milan perché non faceva giocare gli stranieri. L’ispiratore fu un certo Giorgio Muggiani, definito dalle cronache come un pittore e artista bizzarro, che celebrò la fondazione con queste parole: “Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo”. Nessuno sa quando la storia finisca e quando inizi la leggenda.
Il culmine delle delusioni arrivò il 5 maggio del 2002. Scudetto perso all’ultima giornata, anzi, gli ultimi quarantacinque minuti. Avevo atteso quattro anni quel giorno e tutto si spense in quarantacinque minuti, Ronaldo, alla sua ultima con la maglia neroazzura, la testa china, e delle lacrime che scendono. Saluterà tutti direzione Madrid un mese dopo.
Tutto da rifare un’altra volta, tutto da capo. Perché il calcio, avevo imparato, era così. Ogni anno, a maggio finisce, ma puoi sempre aspettare la prossima stagione, dove si parte tutti sempre da zero. La trovavo una cosa abbastanza rassicurante.

Iniziai le scuole superiori, il liceo a Gavirate, e la situazione non accennava a migliorare. Ogni anno sempre la stessa storia. Sembrava gravasse una maledizione. Nel mentre, il mio interesse per il calcio, complici gli insuccessi, scemava leggermente per far posto un altro grande interesse che, avevo scoperto essere indispensabile avere: le donne.
Il 2006 fu la svolta. Arrivò calciopoli che come un tornado rovesciò il mondo del pallone, riscrisse gerarchie, confermò sospetti fino allora sussurrati. Iniziò finalmente il ciclo dell’inter, anche se tutto era avvenuto probabilmente troppo tardi, non ero più un bambino da tempo, e nemmeno come me l’ero immaginato anni prima.
Arrivarono i tempi di Mancini, degli scudetti vinti contro le armate di Totti. Si vinse tanto, certo, ma solo una volta la gioia fu incontenibile. La Champions del 2010, seguita passo dopo passo dagli sgabelli del Suve che, in quelle sere, raccoglieva frotte di juventini repressi. La finale la vidi in piedi, dopo tre giorni di ansia pre-partita. Il pranzo di sabato non mangiai. Ricordo però che in fondo, anche se nessuno osava dirlo, eravamo tutti sicuri che questa volta avremmo vinto noi, questa volta finalmente, quella gran puttana non mi avrebbe tradito. Nell’intervallo andai dove lavorava Ziopera, interista come me, che quella sera non poteva assistere all’evento che aspettavamo da anni: “1-0 Ziopera, vinciamo noi, Milito. Questa volta la portiamo a casa.” Mi sorrise. Forse bestemmiò dalla gioia, non ricordo, ma è presumibile.
Vincemmo 2 a 0. Facemmo il triplete, e con quello, finalmente, i giorni che avevo tante volte sognato arrivarono, anche se, purtroppo, un po’ fuori tempo massimo.
Dopo quella sera cambiò tutto.
Non riuscì più a seguire il calcio allo stesso modo, a metterci la stessa passione. Affiora ogni tanto quando gioca la nazionale, ma più per voglia di festeggiare con gli amici che per pura passione sportiva.

Seguo ancora il calcio, ma più per questioni legate ad altri giochi che per amore per l’inter. Anche perché penso che l’amore incondizionato per una squadra di calcio sia in effetti una cosa da bambini.
In questi anni ho sempre cercato di guardare il calcio con lo sguardo che avevo da bambino, quello che ti permette di dimenticarti che mondo schifoso sia diventato oggi il pallone, che ti permette di credere che qualche valore sia rimasto. I bambini delle volte, è come se avessero un filtro, con il quale riescono a vedere sole le cose belle, in questo caso, che li permetta di vedere solo lo sport, e nient’altro.


E’ di pochi giorni fa la notizia che Moratti ha venduto la sua inter, la sua creatura ormai maggiorenne come l’hanno definita i giornalisti. L’ha lasciata andare dopo averla coccolata forse troppo in questi anni, come fa un padre troppo indulgente con una figlia indisciplinata (e un po’ troia, torno a ripetere)
Ho accolto la notizia con uno stato d’animo strano: né con disperazione, ma nemmeno con indifferenza. Forse perché dietro al fatto che cambi un presidente di una squadra di calcio, questa volta, per me, c’è molto di più.
Certi periodi nella vita finiscono da soli, ma quando poi ci si ripensa si rimane interdetti per un attimo. Voglio dire, io non mi sento più un bambino da anni, ma il fatto che c’era l’inter di Moratti mi ricordava quando invece lo ero. Era come se ci fosse una macchina del tempo che istantaneamente riposrtasse a quei giorni dove tutto era più semplice. E ora che non c’è più mi accorgo che è tutto finito.
Ronaldo si è ritirato, ora gioca a poker ed è ingrassato come un maiale, Simoni non allena forse più, sono passati nel mio cuore calcistico campioni che hanno fatto i campioni e altri che hanno fatto i bidoni, più sconfitte che vittorie senza dubbio, più delusioni che soddisfazioni, ma non me ne vergogno, anzi, perché fare il tifo per quelli che vincono sempre è troppo facile, e il vero sportivo si vede quando perde.

Arrivederci presidente, le dico la verità, non la ricorderò né come un modello né come un profeta, la mia vita ora che ha lasciato l’Inter andrà avanti nello stesso identico modo e credo sinceramente che lei non mi mancherà, ma la ringrazio per avermi dato qualcosa per cui appassionarmi e sperare quando ero piccolo e anche perché, tutto sommato, ci ha fatto divertire.



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