venerdì 14 febbraio 2014

Il vuoto dietro di sè


Di storie legate al mondo dello sport, ed a quello del ciclismo in particolare, ce ne sono un’infinità, e molte delle quali, viaggiano seguendo quella linea di confine che separa la realtà dalla fantasia, la cronaca dalla leggenda, la storia dal mito.
La storia del tour de France per esempio, la grande boucle, la corsa più affascinante del mondo, nasconde nei suoi annali gesta incredibili, sepolte sotto strati di ricordi in bianco e nero, alimentate dai racconti di chi c’era con le licenze poetiche di ognuno. E così ogni tappa raccontata, ogni montagna, ogni particolare, viene romanzata come se i suoi protagonisti fossero attori, o meglio ancora, personaggi epici come Omero o Achille.
Uno di questi era Abdel Khader Zaaf, forse il primo africano che partecipava ad un tour, di sicuro il primo di cui ci si ricorda, che nella tappa Perpignan-Nimes scattò a duecento km dal traguardo insieme ad un altro algerino lasciando il gruppo ad inseguire sotto un caldo tremendo che non preoccupa minimamente i due atleti. Ma a quindici chilometri dall’arrivo Zaaf inizia ad andare a zigzag e viene fermato dai commissari della giuria. Lui protesta, rimonta in sella e dopo poco sbatte sul ciglio della strada e stramazza sotto un albero di platano, addormentandosi di colpo. La folla lo sveglia, lui si rimette in sella e riparte all’impazzata, ma dalla parte opposta. Finirà la tappa in ospedale e i giorni successivi si vocifererà che qualcuno gli avesse passato una borraccia di vino rosso che lui, musulmano, non riuscì a reggere minimamente.
Le primissime tappe in salita sono veramente avvolte dal mistero. Si narra di ciclisti visti sulla cime delle prime montagne scalate, su strade disastrate, perdere l’uso della vista per la troppa fatica ed inveire contro gli organizzatori dandogli dei criminali. O del ciclista francese in fuga che era talmente avanti rispetto al gruppo che quando gli si ruppe la forcella in seguito ad una caduta, fece in tempo ad andare a piedi dal fabbro del paese per farsela riparare. Leggende.
Storia vera invece è quella del tour 1948, dove partecipa un Bartali trentaquattrenne, sul finire di una carriera bruscamente stroncata dalla guerra, che portò via i suoi anni migliori, a lui, come a molti altri giovani di allora. Alla tredicesima tappa Bartali è settimo con un pesante ritardo di ventuno minuto dal primo in classifica, l’americano Bobet. I giochi sembrano ormai fatti. Nello stesso momento, l’Italia, è sull’orlo di una pesante crisi in seguito all’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del PCI, ferito da uno studente di destra. In Italia si susseguono le manifestazioni spontanee e la CGIL proclama uno sciopero generale, alcuni arrivano a prendere le armi. Lo scontro sembra inevitabile, e c’è gi chi profetizza un’insurrezione di massa. Mentre l’Italia è sull’orlo del caos il presidente Alcide De Gasperi telefona in Francia alla delegazione italiana, spiegando la situazione e chiedendo a Bartali un’impresa per distrarre l’opinione pubblica e calmare gli animi.
Bartali vincerà la tappa, e dopo quattro giorni prenderà la maglia gialla trionfando a Parigi. In Italia la situazione si placa, e si dice, soprattutto per l’orgoglio di aver visto nuovamente un italiano trionfare al tour.

Il primo tour che ricordo personalmente è quello dell’estate 1998. Avevo 8 anni e trascorrevo le mie estati in compagnia dei miei nonni, perso in quello che allora mi sembrava il giardino più grosso del mondo, tra l’orto e le piante di fiori o da frutto, giocando con tutto quello che trovavo in giro. Mio nonno è sempre stato un appassionato di ciclismo e quella fu l’estate in cui la sua passione contagiò anche a me, anche perché, in quel periodo, l’entusiasmo era alle stelle, un nuovo campione italiano era nato nel ciclismo. il suo nome era Marco Pantani.
Pantani era un atleta piccolo e leggero, come si addice ai migliori scalatori. I Suoi scatti in salita erano delle frustate decise e inarrestabili, saltava su i pedali, faceva il vuoto dietro di sé. L’Italia intera aveva un nuovo idolo, in grado di umiliare i migliori ciclisti del mondo, dal tedesco d’acciaio Ian Ullrich, al russo Pavel Tonkov, l’uomo più inespressivo della terra, si vocifera che non sentisse ne la fatica ne il dolore, ma forse è un’altra leggenda. 
Era soprannominato Il pirata, per via della bandana che amava tenere in corsa, che gettava via poco prima di sferrare un attacco, prima di partire all’arrembaggio, esattamente come un pirata, come fosse un presagio di sventura.
Il 1998 fu l’anno di Pantani, centrò la coppiata giro d’Italia - tour de France dopo che l’ultimo italiano a farcela era stato Fausto Coppi una cinquantina d’anni prima. Tutta Italia lo adorava e lo seguiva.
Fu un colpo al cuore quando circa un anno dopo venne escluso dal giro d’Italia,  dopo la tappa di Madonna di Campiglio, per ematocrito alto, in seguito a controlli che Pantani e la sua squadra sapevano avrebbero dovuto fare. Iniziarono anni duri per Pantani, tra brusche scivolate e timide risalite, lui che era solito mangiarsele le salite. Io e mio nonno increduli, il nostro idolo spazzato via da un vortice mediatico implacabile. Non ci appassionammo più per nessun ciclista, nemmeno Bettini o Savoldelli. Pantani non si rialzò mai del tutto. Morì esattamente dieci anni fa, la notte di S. Valentino, dopo processi interminabili ed un accanimento giudiziario che non aveva avuto nemmeno Totò Riina.
Dieci anni dopo, non mi va davvero di presentare elementi per avvalorare la tesi del complotto, o condannarlo senza pietà, non sta a me giudicare e non è la sede giusta. Avevo solo voglia di ricordare l’atlleta formidabile e l’uomo fragile che era, capace di imprese sportive incredibili ma non di uscire fuori da una spirale d’odio nella quale era intrappolato, perchè attaccare come faceva lui, nella vita, a volte non basta se non si riesce ad assorbire i colpi che arrivano. 
Ma Pantani è anche la persona che mi ha insegnato che quando nella vita si deve attaccare, per vincere è necessario fare il vuoto dietro di sè.

Ogni tanto quando penso a lui, penso quanto sarebbe stato bello se di fronte a tutti quelli che l’hanno messo in croce lui avesse semplicemente preso la bicicletta e fosse scattato via come sapeva fare lui, in piedi sui pedali, facendo il vuoto dietro di se, a lasciare chi gli voleva male a provare inutilmente ad inseguirlo, e noi, con un sorriso e un pensiero nella testa: “non lo prenderete mai, non lo prenderete mai…”.

Ma questa purtroppo, è un'altra leggenda.




Nessun commento:

Posta un commento

Cosa ne pensi?