Calendario alla mano, sono diciannove giorni che non scrivo.
Un’eternità se paragonata alla fecondissima produzione dei
primi mesi di vita di questo strampalato blog.
Ma cosa volete, gli impegni si
infittiscono e come i negozi, anche il mio blog tira giù la serranda e fa
orario estivo: “torno fra qualche giorno”, “Aperto solo il mercoledì”, “Chiuso per
ferie”.
C’è chi attribuisce la mia assenza dalla scena alla mia
cancellazione da facebook. Alcuni quando l’hanno saputo mi hanno guardato come
se fossi diventato un eremita luddista andato a vivere in un monastero tibetano
a contemplare le libellule che si posano sui fiori di loto. No ragazzi,
semplicemente ho smesso di vedere scorrere sotto il naso i cazzi di tutti.
la mia cancellazione da facebook, tuttavia, andrà a scremare
ulteriormente la mia schiera già piuttosto esile (ed esule talvolta) di fan. I
pochi che resisteranno li considero degli eroi, irriducibili ed accaniti
highlander che, non ho ancora capito bene perché, professano uno sconfinato
amore per me e per le boiate che scrivo.
Ma la scomparsa di nuovi post non è dovuta ad una qualche
fantomatica forma di blocco della scrittore, anche perché ho in mente le storie
per almeno altri cinque pezzi, ma più che altro al fatto che, tra una festa e un
giro in barca, tra un’appalto del verde e un serramento da imbiancare, tra una
vacanza da organizzare e una fanciulla da corteggiare, ogni tanto, certi
periodi, entro anche io nel fantomatico periodo degli esami e sì, capita pure
che studio. Poco, ma studio.
Nel periodo di esami, al mio interno, si svolge un'estenuante battaglia senza
esclusione di colpi fra il bene e il male, una guerra tra il giusto e lo
sbagliato, fra il concesso e il proibito.
Da quando ho iniziato l’università, affronto lo studio in
maniera contrastante.
Capitano infatti giorni in cui faccio compiere ai libri
da studiare estenuanti viaggi da un luogo all’altro sperando di trovare le
condizioni perfette per iniziare a leggerli. Condizioni che, per i più svariati
motivi, non si verificano mai. Trascorro le mie giornate come un pachiderma
sdraiato sul letto a meditare, dilaniato internamente dalla guerra dei sensi di
colpa e del senso del dovere contro la mia indole fancazzista e il mio istinto,
ereditato forse da un’altra vita in cui credo fossi a capo di qualche tribù
indigena in cui la mia unica preoccupazione era quella di mangiare e dire
puttanate, attività appunto, nelle quali eccello in modo particolare in questi
giorni.
Altri giorni invece, per compensazione, mi sveglio con la
volontà e forza d’animo di Stakanov, il minatore sovietico da cui, dedurrete, è
nato l’aggettivo stakanovista. In questi giorni mi rinchiudo in un ritiro
spirituale ed interiore in cui le nozioni me le mangio a secchiellate, le bevo
a botti di rovere e me le ignetto endovena a flebo. Non parlo, non saluto, a
stento mi nutro.
Compongo una letteratura di schemi e schemini, sunti e
riassunti, spunti ed appunti, che ho il potere di perdere nel porcile che si
accumula in camera mia quasi con immediatezza, alcuni non vengono più
ritrovati, mai più, probabilmente si smaterializzano, si autodistruggono come i
messaggi che comunicavano ad Ethan Hunt di Mission Impossible la sua prossima
missione, appunto, impossibile.
La sede di questi ritiri, solitamente, è la casa dei miei
nonni, una sorta di tempio con un che di mistico, di soprannaturale, di magico.
E’ la casa dove sono cresciuto da bambino, nella quale ho
anche vissuto stabilmente per un breve periodo, anni fa. Forse l’unico posto su
questa terra che davvero sento e considero a pieno titolo casa mia.
Ogni volta che ci vado, mi domando perché ho lasciato
passare così tanto tempo dall’ultima volta.
E’ una casa di due piani, con un sacco di stanze, ormai
tutte vuote, e come in tutte le grandi case, ristrutturazioni di vecchie
cascine lombarde, si respira la storia dei propri avi, si percepisce a tratti,
qualche sprazzo di vita di ottant’anni fa. Il vecchio garage dove una volta vivevano
le bestie, le camere tutte comunicanti con lo scalone al centro, il cortile
bloccato dalla strada che conduce alla fabbrica dove molti degli uomini che
abitavano la zona (compreso mio nonno) vi andavano a lavorare, ogni giorno,
spesso anche la domenica, senza mai lamentarsi (così mi raccontano, e non
faccio fatica a crederci).
Al secondo piano c’è una piccola libreria, con una serie di
vecchi libri di mia madre, suppongo comprati in un periodo che va da poco prima
che nascessi fino a quando ci siamo trasferiti, all’età di dieci anni.
Nel trasloco non portammo via tutto e certi libri rimasero
dov’erano, a prendere polvere, quella pochissima, a dire il vero, a cui mia
nonna concede l’onore di posarsi.
Sono lì da anni, dimenticati, a riposare,
soli, a custodire le proprie storie, con cura tra le pagine ingiallite.
Nelle mie pause dallo studio matto e disperatissimo, durante
gli anni, mi sono sempre divertito a guardare quei libri. La prima volta che scorsi i cinquanta libri presenti, mi ricordo che notai
che conoscevo forse un paio di autori al massimo tra quelli sugli scaffali, non di
più. Presi uno di quei libri che conoscevo, era "Il piccolo principe". Lo rilessi
tutto in un paio d’ore, e me lo portai a casa.
"E' un peccato che rimanga lì" pensai.
Da allora rifeci la stessa cosa, ciclicamente, ad ogni
sessione di esami. Cercavo qualche libro nuovo da leggere, di autori che
conoscevo, che nel frattempo avevo scoperto per qualche motivo. E sempre, giuro, dico sempre, trovavo qualche libro di autori che
poche settimane prima mi aveva consigliato qualche amico, o di cui avevo visto un’intervista,
o mi aveva colpito per un qualche motivo.
Quando vidi Baricco, una sera, da Fazio, pensai subito che
fosse un genio. La sessione dopo di esami, la magica libreria, mi servì su un
vassoio argentato “Castelli di rabbia” e “Seta”. Li divorai, e lui, dopo il
primo capitolo che lessi diventò il mio autore preferito.
L’ultimo che ho trovato è “Due di due” di Andrea De Carlo,
libro nominatomi non più tardi di un mese fa da un caro amico. “Lo prenderò in
biblioteca” gli dissi, non è servito.
Sarà la mia prossima lettura, tanto ora
gli esami sono finiti. Proprio tutti questa volta. E anche la libreria, in
effetti, piano piano si sta svuotando quasi del tutto. Arriverà un giorno che non
rimarranno più altri libri da scovare, e forse, sarà il giorno in cui non avrò più
esami da superare, non ci saranno più sessioni da oltrepassare, non avrò più nulla da imparare
da quella libreria.
E forse, sarà il giorno in cui il bambino che torno quando metto
piede in quella casa, sarà pronto per andarsene via da solo...per tornare solo quelle
volte in cui avrà voglia di sentirsi veramente a casa.
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