Vi avviso, non troverete qui il diario del mio viaggio, né una
sequenza di fatti di tutto quello che è successo. Quei racconti perderebbero
troppe sfumature nel nero sul bianco, ma io e i miei compagni di viaggio saremo
sempre ben lieti di condividere a voce con chi lo vorrà le storie di quei pochi
giorni vissuti sulle strade spagnole.
La meta era chiara fin dal principio, fin da quando, mesi
fa, passavamo alcune tristi e ancora fredde serate di marzo a pianificare senza
sosta queste due settimane di agosto, volate via, come trasportate da una
brezza arrivata forse da nord, lasciando dietro qualcosa che non si insegna,
non si trasmette, non si cerca, semplicemente si trova.
L’obiettivo, dicevo, è
sempre stato arrivare a S.Sebastian il 10 agosto, giorno d’inizio della “Semana
Grande”, l’evento più pittoresco dei Paesi Baschi.
Per chi non c’è mai stato,
proverò a descrivervi S.Sebastian, Donostia in lingua basca. L’errore più
comune che potreste fare, ora, è immaginarvi una città, con strade, palazzi,
vicoli, monumenti, persone, automobili, semafori, grattacieli.
Immaginatevi invece,
se riuscite, una donna. Una donna elegantissima e sofisticata, oltremodo
affascinante, di un’età indefinita, a cui noi, veri signori, non chiederemo
inutili precisazioni, adagiata ai piedi di montagne che arrivano a lambire la
costa con qualche sperone a picco, e che nel suo grembo culla le onde di un
oceano che si fonde con un fiume, dividendola a metà, a tratti il fiume entra
nell’oceano, altre volte, è l’oceano a scatenarsi verso l’interno dimostrando
un carattere tutt’altro che sottomesso, direi anzi quasi burrascoso, ostinato e
prepotente.
Seducente ed orgogliosa, come una vecchia Dame che nonostante
gli anni sa ancora come essere sensuale, si compiace della sua bellezza al
tramonto, quando sembra catturare malcapitati pittori con un passato da marinai,
talvolta pazzi ed ubriachi, che nel tentativo di far colpo dipingono indescrivibili
colori sul suo cielo, che come una tela, accoglie quelle incredibili sfumature
che rimangono incise, per poco tempo, ma con la passione di un amore
travolgente, prima di scivolare inesorabilmente verso il basso, scansati dalla notte, a
perdersi nello sconfinato infinito dell’oceano mare.
Questa era la meta, ma prima, davanti a noi 4500 chilometri,
la costa sud della Spagna, e tante aspettative. La voglia di staccare con tutto
per due settimane e perdersi nei sentieri del gusto, dei sapori, dei costumi,
delle tradizioni di un paese che da sempre è il crocevia dei miei percorsi più
azzardati e tremendi. La terra nella quale volente o nolente passo a tirare le
somme e a caricare le pile prima di partire per un altro pezzo di qualcosa, che
solitamente non so bene cosa sia.
Esistono situazioni nella vita che si presentano
ciclicamente. Una di queste, per me, è la spiaggia di El Saler, dieci chilometri
ed ovest (o forse est..) di Valencia. Rivederla dopo esserci capitato per caso
quattro anni prima, e riscoprirla uguale, sempre ventosa, sempre con il porto
sullo sfondo, non propriamente bellissima quindi. E mentre ero sdraiato su
quella spiaggia, a domandarmi se pure la spiaggia mi avesse trovato uguale o un
po’ cambiato, scopro di essere lì a riflettere sulle stesse cose a cui pensavo
anni prima. O meglio: sono cambiati alcuni protagonisti, anche le protagoniste,
anche se parrebbe non poi così di molto, sono cambiate una marea di situazioni
e certe aspirazioni, ma lo spaesamento di quando si finisce è rimasto lo stesso.
E dopo una delle folate di vento più intense capisco che la mia paura più
grande è aver paura di ricordare. L’altra è guardarmi indietro e pensare di non
aver fatto abbastanza, di essere stato inadeguato in qualcosa, di non aver
vissuto a pieno. Ma anche a Valencia arriva poi la notte, e di chilometri ne
abbiamo ancora parecchi. Lungo la strada scopro posti di cui mi ero innamorato,
altri che avevo accantonato, certi che avevo snobbato, nascono poi piacevoli
sorprese. Quei vicoli di Tarifa, quando vorresti che la notte non finisse mai,
ma proprio mai, perché ad avere un paio di vite di scorta probabilmente me le
giocherei qui. Eddai insomma, l’oceano, il cibo, il caldo, le… che ve lo dico a
fare.
Il viaggio che si trasforma in un vagabondare spinti dalla
voglia di provare nuovi cibi, quando si dice prenderci gusto, attraversando la meseta, mille chilometri di
entroterra, per arrivare finalmente alla mecca dei pinxtos e del mangiar bene.
A vedere la semana grande che inizia, espolode a dir la verità, e il nostro viaggio che finisce, e noi,
che ce l’abbiamo fatta.
Perché si, è vero, la meta era chiara e precisa, ma il
meglio si sa, lo si incontra sempre per strada. In fondo poi è così, si viaggia
perché a star fermi ci si fa troppo male. Si viaggia perché le risposte
arrivano da sole. Si viaggia perché nella vita si viaggia sempre, e di bivi se
ne incontrano molti, un po' tutti i giorni. Ma la cosa che ho imparato, è che in realtà se la
meta è ben chiara, ogni strada è quella giusta, ogni strada ti può dare
qualcosa di buono. Certo, delle volte si prende l’autostrada, anche se costa e
non è bellissima, perché bisogna fare in fretta, altre volte invece si può
perdere tempo tra i tornanti delle statali che costeggiano l’oceano e talvolta
pure fermarsi a fare una foto al mare che svanisce.
Delle volte si viaggia per capire se la meta è giusta. O
forse, per ricordarsi che era giusta la meta di prima. Vivere è questo, fare
ogni giorno un pezzo nuovo di strada, con la gente giusta al proprio fianco,
con la musica che ti accompagna, con la malinconia per il posto che si
abbandona che combatte con l’esaltazione di scovarne uno nuovo. e poi… e poi
con l’allegria di un tapas bar di Siviglia, con un cielo stellato di Tarifa, con
una nottata di Salou , con una targeda del
grand hotel di Almerìa, con un orizzonte di San Josè, con una spada di Toledo,
con un pinxtos di Donostià, e con un sogno di qualche città che ancora non c’è.
Vita è tutto questo, e dopo viaggi così penso che non ne
vorrei una diversa per niente al mondo.
In fondo ce lo chiedevamo prima di
partire, e poi in macchina quando cantavamo con tutta la forza possibile mentre
raggiungevamo la prossima meta, e ogni tanto ancora ce lo domanderemo: chissà
se anche in Spagna passano gli Who…
A breve linkerò le foto, una volta accumulate tutte...
Ringraziamenti doverosi:
Alla “nostra” lancia Phedra, per aver resistito, che cuore.
A quelli che facevano casino fuori dalla nostra tenda per aver scatenato l’ira
di Paro (vice campione europeo di kick-boxing).
A “Zucco”, per averci fatto
divertire pur non sapendo bene chi fosse (c'è chi narra che stia ancora cercando una piazzola dove mettere il camper).
Al Cameriere di Valencia, per le
preziose lezioni di spagnolo (più simile all’italiano di quanto si pensi).
Ad
Adriano Pappalardo per aver scritto “Ricominciamo”.
Alla “Chica” di Salou che
tiene l’hombre, cazzo.
Alle chiche di El Saler per farci sapere che se pensano ad un italiano pensano a Federico Moccia (sempre poi meglio di
Berlsuconi).
Alla polizia di S.Sebastian per non averci arrestato quando ci
siamo trovati circondati da branchi di sedicenni armate di shorts e reggiseni.
Ai tapas bar dell’andalusia per averci insegnato a friggere i frutti di mare.
A
tutte le persone che abbiamo conosciuto, soprattutto quei tre folli di Bologna,
incontrati giustamente a Siviglia.
Al popolo ucraino, un po’ per tutto.
Alle
stelle cadenti di Tarifa (anche se forse è un po’ presto per ringraziarle)
A Ligabue, Rumatera, Dargen D’amico, 883 e Bruce Springsteen
per una parte consistente della loro discografia che ci ha accompagnato ad ogni
chilometro.
E infine a Lorenzo (Adriano), Andrea (Andreone Nazionale), Alessandro
(National Diadione), Chiara (Luis Hamilton) e Chiara (Stini Shock), impareggiabili
ortolani, viaggiatori favolosi, amici veri.
Nessun commento:
Posta un commento
Cosa ne pensi?